Carlos J. Errázuriz M.

1. Premessa

Come è ben noto, una parte considerevole del lavoro nei tribunali ecclesiastici riguarda l'accertamento della capacità o incapacità delle persone per il matrimonio. Perciò, malgrado il tema abbia ormai perso in buona misura il fascino della novità, esso continua a suscitare vivo interesse tra i canonisti. Una pubblicazione o una riunione scientifica sull'incapacità matrimoniale, oppure sul canone 1095, per esprimersi secondo il vigente testo codiciale, riscontra quasi sempre una eco assai maggiore della media degli argomenti canonistici.

Mi si è chiesto di tenere un intervento d'indole introduttiva, con delle considerazioni generali, previe all'analisi delle varie ipotesi di incapacità consensuale contemplate nei tre numeri del succitato canone. Tali considerazioni generali, se giuridiche, non potranno che essere pratiche, cioè rivolte a meglio chiarire una questione di giustizia. Ma esse non saranno di natura immediatamente pratica. Infatti, non intendo studiare concrete situazioni di fatto, né soffermarmi sulla normativa del Codice e la sua applicazione giurisprudenziale. Tutto ciò è senz'altro necessario, ma lo è anche, e a maggior ragione, il tornare al problema di fondo che è al centro della travagliata evoluzione del sistema canonico in materia in questi anni. Penso che non sia per niente superfluo porsi di nuovo tale questione, che può essere enunciata in termini molto semplici: quale capacità si richiede per sposarsi? Infatti, per forza ogni norma e ogni sentenza opera a partire da una certa risposta a tale quesito. Certamente non pretendo offrire una soluzione nuova; vorrei piuttosto riflettere sulle principali risposte finora offerte, per essere dunque in grado di discernere quale tra esse si adegua meglio alla natura del matrimonio.

2. La capacità, concetto fondante dell'incapacità

Che il concetto di capacità sia prioritario rispetto a quello d'incapacità è cosa ovvia, peraltro ribadita mille volte dai canonisti. Ciò nonostante, a mio parere conviene insistere sul punto, dal momento che di fatto prevale la tendenza generale a studiare il matrimonio nell'ottica del negativo, ossia della nullità. Ho l'impressione che l'aumento della bibliografia e delle sentenze sull'incapacità non corrisponda a un approfondimento altrettanto cospicuo della capacità matrimoniale quale nozione fondante. Inoltre, lo scetticismo dinanzi alle regole tradizionali, basate sull'uso di ragione, la pubertà, ecc., ha contribuito a rafforzare un atteggiamento tendente piuttosto a semplicemente accertare la presenza di disfunzioni patologiche, poiché non sarebbe possibile verificare in modo diretto la capacità psichica né verificare positivamente l'efficacia del consenso.

Occorre senz'altro studiare l'incapacità, nelle sue modalità essenziali e nella sua sintomatologia fenomenologica. Tuttavia, proprio per poterlo fare non è possibile prescindere dalla considerazione positiva della capacità. Altrimenti si corre il rischio di usare una certa nozione di capacità, la quale però non viene adeguatamente esplicitata né criticamente analizzata. La mancanza di chiarezza nei presupposti di fondo può facilmente condurre a muoversi sulla base di inconfessati pregiudizi. Si profila così, in questo settore e anche in tutto il sistema delle nullità matrimoniali, il pericolo di assumere una mentalità «politica», il più delle volte a favore della nullità, ma pure talvolta contro la stessa. Non ci sarebbe più una questione di verità, ma solo di convenienza pragmatica, rivestita di qualunque motivazione: bene pastorale delle persone, bene della famiglia, ecc. A nessuno sfugge la radicale contraddizione di questa prospettiva con la stessa essenza del diritto inteso come ciò che è giusto.

3. Il concetto di matrimonio quale presupposto essenziale di quello di capacità matrimoniale

La storia dei tentativi di determinazione positiva della capacità matrimoniale si può descrivere come la storia della ricerca dei criteri di misura, che implicano dei rispettivi punti di riferimento. Si tratta di una storia piuttosto complessa, che non pretendo qui nemmeno riassumere. Tali punti di riferimento si possono raggruppare in due tipi: quelli che procedono per via di paragone, e quelli che mirano alle stesse persone dei nubendi. Il paragone è stato fatto in relazione alla capacità per essere moralmente responsabile di un peccato mortale, alla capacità per celebrare altri contratti, e a quella per assumere altri stati di vita, come quello religioso. L'altra via tralascia questi paragoni, e fissa l'attenzione direttamente sulle persone, sia in positivo mediante la considerazione del processo di maturazione della persona (uso di ragione, pubertà), sia in negativo attraverso l'analisi delle anomalie che possono determinare un'incapacità.

Questi punti di riferimento, la cui valutazione esula dalle mie intenzioni in questo momento, possono essere utili a condizione che si sappia cos'è il matrimonio. Ovviamente per giudicare chi sia in grado di sposarsi, il criterio fondamentale ed indispensabile proviene dalla comprensione della stessa realtà matrimoniale. Per poter paragonare il matrimonio ad altre azioni o situazioni umane, occorre conoscere minimamente i due termini della comparazione: altrimenti non si potrebbero formulare le massime del tipo «si richiede di più o di meno che per tale altra azione o situazione». La considerazione positiva della stessa persona presuppone un dato di esperienza: gli uomini e le donne, arrivati a certa età, sono normalmente capaci di contrarre matrimonio. Come vedremo più avanti, questo riferimento all'esperienza si rivela prezioso, e assolutamente necessario, poiché senza di esso non saremmo in grado di comprendere cosa sia il matrimonio. Tuttavia, tale esperienza umana è illuminante nella misura in cui è veramente matrimoniale, per cui riappare il concetto di matrimonio quale presupposto sine qua non per l'utilizzo dei criteri di esperienza come misure di capacità. Da ultimo, trattandosi di difetti o anomalie che rendono qualcuno incapace a sposarsi, risulta ancor più evidente la necessità di rapportarli ad una nozione positiva di matrimonio. Altrimenti, si corre il rischio di concepire le anomalie psichiche come capi di nullità, come se la sola conoscenza psicologico-psichiatrica di quelle anomalie bastasse per emettere un giudizio sulla capacità di sposarsi.

Tutto ciò può sembrare tanto evidente quanto inutile. Tutte le persone umane, una volta raggiunta una certa maturità, hanno una qualche idea su cosa sia il matrimonio, e quel «tutti» comprende certamente coloro che si dedicano in teoria o in pratica al diritto matrimoniale canonico. Ho l'impressione che la tradizione canonica abbia lavorato sulla base di un'idea effettivamente comune di matrimonio, benché spesso le formulazioni fossero più o meno imperfette. La crisi di questi anni, che a mio avviso rimane ancora da superare, concerne proprio l'idea stessa di matrimonio. Non penso che esista solo una crisi pratica tra i fedeli nel campo del matrimonio e della famiglia; come succede sempre, la prassi cerca di diventare teoria, e la teoria tende a giustificare e promuovere la prassi. La confusione diventa particolarmente grave quando tutti usano lo stesso nome - "matrimonio" -, ma i concetti e le realtà a cui si riferiscono sono essenzialmente diversi.

4. Le ripercussioni in tema di capacità di tre visioni del matrimonio

Vorrei adesso mostrare come effettivamente il modo di impostare la capacità matrimoniale dipenda dalla concezione del matrimonio che si assume in maniera esplicita o implicita. Quando i canonisti elaborano la dottrina sulla capacità e l'incapacità matrimoniale, la loro elaborazione rispecchia un modo di intendere il matrimonio.

Per comprovare questo asserto prenderò tre canonisti del sec. XX: il cardinale Pietro Gasparri, protagonista indiscusso della prima codificazione; il vescovo nordamericano da poco scomparso John R. Keating, la cui tesi dottorale all'Università Gregoriana sotto la guida di Peter Huizing è riconosciuta come una tappa importante nel processo di elaborazione delle idee attuali in tema di incapacità; e Javier Hervada, professore all'Università di Navarra e ben noto, tra l'altro, per le sue molte e profonde pubblicazioni matrimonialistiche.

a) La dottrina di Gasparri

Il suo trattato canonico sul matrimonio, che citeremo nella seconda edizione postcodiciale, è consapevolmente incentrato sul matrimonio in fieri, e ciò si corrisponde peraltro con l'impostazione normativa sia della prima che della seconda codificazione della Chiesa in materia matrimoniale. Anzi, è celebre la tesi di Gasparri secondo cui «il matrimonio in facto esse è lo stesso contratto matrimoniale che fu celebrato e che rimane con il consenso e con i diritti e gli obblighi matrimoniali che sono stati introdotti». Di conseguenza, ai suoi occhi il matrimonio appare essenzialmente quale «vero contratto bilaterale, benché sia di un ordine molto superiore soprattutto tra i battezzati, poiché è il legittimo consenso di due che si accordano sullo stesso oggetto, introducendo un obbligo di giustizia commutativa per entrambe le parti di realizzare od omettere qualcosa». Notissimo è poi il suo modo di concepire l'oggetto del consenso matrimoniale, identificato con lo ius in corpus.

La capacità consensuale viene vista da Gasparri nella parte riguardante il difetto della debita discrezione. Dopo aver affermato che «è manifesto che per il consenso contrattuale in generale e per quello matrimoniale in specie occorre l'uso di ragione, che di solito è presente ai sette anni compiuti», sostiene che «però non è sufficiente il semplice uso di ragione, ma si richiede una discrezione o maturità di giudizio proporzionata al contratto, in modo tale che il contraente possa intendere la natura e la forza del contratto». Ancor più significativa è la seguente precisazione: «Perciò, affinché il matrimonio sia valido in virtù dello stesso diritto naturale, entrambe le parti debbono godere di un tale uso di ragione che consenta loro di intendere sufficientemente cosa sia il matrimonio e le sue proprietà essenziali, e cioè che il matrimonio consiste nel diritto perpetuo ed esclusivo rispetto al corpo in ordine agli atti di per sé atti alla generazione della prole (can. 1081 § 2)». D'altronde, la trattazione aveva incominciato proprio con la citazione di quest'ultimo canone, sulla conoscenza minima necessaria per sposarsi. Nel secondo paragrafo dello stesso canone si allude alla pubertà per stabilire la presunzione legale di tale conoscenza minima dopo il suo raggiungimento.

Sul pensiero di Gasparri, e su quello di molti canonisti attorno al primo Codice, e anche sulla impostazione dello stesso Codice, ci sarebbe molto da dire. Sembra chiaro che si tratta di un approccio che, pur volendo difendere il matrimonio naturale così come ce lo presenta la Rivelazione cristiana, non può considerarsi un'espressione fedele della migliore tradizione canonica matrimoniale. Qui m'interessa solo far notare che le idee ricordate compongono un insieme assai unitario. La loro unità proviene dal concetto di matrimonio da cui si prendono le mosse. Tale concetto fonda poi un modo di vedere la capacità.

Il matrimonio è un contratto, fonte di rapporti di giustizia commutativa tra i coniugi. Tale nozione domina a tal punto la prospettiva di Gasparri, che il matrimonio in facto esse viene ad apparire come il perdurare di tale contratto nel tempo. Ovviamente la coerenza di questa visione con l'indissolubilità matrimoniale, saldamente affermata e difesa in pratica da Gasparri, è alquanto incerta. Ma il punto è un altro: il matrimonio viene colto mediante il suo in fieri, e peraltro non si può negare che tale ottica condizioni tuttora profondamente il sistema matrimoniale canonico.

Ciò determina una conseguenza abbastanza logica sul piano della capacità: la capacità consensuale è capacità per celebrare un contratto. Lo si deve conoscere nella sua specificità, e si riconosce che tale conoscenza è legata al normale sviluppo della persona. Ciònonostante, in Gasparri si tratta di una conoscenza d'indole teorica: il lato pratico verrà dato dalla capacità sessuale e dall'età minima fissata dal Codice del 1917. Il difetto della debita discrezione viene visto in termini di ignoranza, di non conoscenza di ciò che è il matrimonio in astratto. La dicotomia tra una capacità consensuale intesa in modo intellettualistico, e una capacità pratica incentrata nella capacità sessuale, deriva da un modo di concepire il matrimonio, e ne evidenzia i limiti. Infatti, l'idea di Gasparri sul matrimonio, inteso come sinonimo di consenso matrimoniale, è intimamente legata alla sua conclusione circa la capacità. Affinché il consenso sia libero, occorre una sufficiente conoscenza del matrimonio, ma sembra essere una conoscenza simile a quella richiesta per compiere un contratto patrimoniale, nel senso che non viene vista come una conoscenza pratica che influisce direttamente sull'oggetto del contratto.

Il matrimonio come relazione con l'altro coniuge, il matrimonio in facto esse, è il grande assente in queste elaborazioni di Gasparri. Vedremo adesso uno dei tentativi più significativi che si sono compiuti per reintrodurre il matrimonio in facto esse nell'ambito della capacità.

b) La dottrina di Keating

Due anni prima della pubblicazione della sua tesi, John R. Keating offrì un riassunto delle sue posizioni in un articolo del 1962 in The Jurist. In quelle poche pagine si assiste ad una "rivoluzione" copernicana in materia di concezione dell'incapacità. Benché ci fossero antecedenti nella dottrina e nella giurisprudenza, non credo che esistesse prima un'elaborazione così coerente e chiara.

L'autore si pone il problema durante la vigenza del Codice del 1917, nel quale non vi era alcun canone simile al 1095 del Codice del 1983. La questione fondamentale del suo studio è: ciò che ancora a quel tempo si denominava abitualmente amentia - oggi potremmo parlare genericamente di anomalie psichiche - costituisce un difetto di consenso matrimoniale oppure andrebbe visto come un impedimento dirimente? Keating fa notare che la struttura della prova è molto diversa in ambedue queste ipotesi: in realtà, egli offre una distinzione che va ben oltre la questione probatoria: «Se, nello schema giuridico delle cause di nullità, l'amentia è considerata come un difetto del consenso, la corrente della prova sarà orientata solo verso il momento in cui il consenso venne espresso. La condizione mentale della persona è contrastata esclusivamente in rapporto al matrimonium in fieri, in rapporto alla sua attuale capacità di mettere in atto tutti gli elementi cognitivi e volitivi necessari per emettere un atto integrale di consenso, un actus exsistens, un qualificato atto umano che sarebbe sufficiente, di per sé, per generare il vincolo matrimoniale». Circa l'altra possibile concezione, quella cioè proposta da lui stesso, egli scrive: «D'altra parte, se la malattia mentale è considerata come un impedimento dirimente, l'integrità naturale dell'atto di consenso matrimoniale non sarà il criterio col quale determinare la validità del rispettivo matrimonio. Il caso non verterà più sul matrimonium in fieri, bensì, per così dire, sul matrimonium in facto esse. La condizione mentale della persona sarà una causa di nullità, non necessariamente perché essa rende incapace per l'atto del consenso durante le nozze, ma perché rende la persona fondamentalmente incapace per lo stato matrimoniale». Nelle spiegazioni immediatamente successive compaiono altri elementi fondamentali per la configurazione della proposta di Keating: l'analogia con l'impedimento di impotenza, lo speciale riferimento alle malattie psicosessuali (cita l'omosessualità e la ninfomania) quale situazione di fatto all'origine immediata della problematica, l'applicazione dell'assioma «nemo potest ad impossibile obligari».

La chiarezza della proposta aiuta a comprendere l'influsso che ebbe nella canonistica nordamericana e mondiale. È vero che il Codice del 1983 non l'ha accolta nei suoi termini formali, ossia non ha introdotto il nuovo impedimento dirimente prospettato da Keating. Ma è stata codificata l'incapacitas assumendi obligationes essentiales quale terzo numero del canone 1095. E l'interpretazione più comune di tale numero, basandosi sulla stessa distinzione nell'enunciato, lo ritiene autonomo rispetto alla discrezione di giudizio di cui al numero secondo, accettando dunque il nocciolo concettuale della tesi di Keating, secondo la quale sarebbe possibile che un atto di consenso psicologicamente integro - nel quale vi è la necessaria discrezione di giudizio - non possa dar luogo al matrimonio per una mancata capacità di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, che non intaccherebbe invece la capacità di emettere quell'atto integro di consenso.

Invece, malgrado ciò che dice Keating, penso che basandosi sulla stessa collocazione del canone nell'ambito del consenso, nonché sul suo letterale riferimento al consenso, è possibile - e, a mio giudizio, doveroso - interpretare i vari numeri del canone 1095 in un altro modo, come tre aspetti o dimensioni dello stesso atto del consenso, affermandone l'interdipendenza. In questo senso, il numero tre sarebbe l'esplicitazione dell'indole essenzialmente pratica del consenso. Tale esplicitazione sarebbe necessaria perché, nonostante tutti i progressi della giurisprudenza e della dottrina, ancor oggi la discrezione di giudizio è concepita in modo piuttosto teorico, e difficilmente si avverte una sua mancanza in casi come quelli legati alle malattie psicosessuali.

Torniamo però al nostro filo conduttore: il rapporto tra concezione della capacità e idea del matrimonio. Nei testi citati di Keating emerge quel rapporto con estrema chiarezza. Egli cerca di integrare la considerazione dal matrimonio in fieri, presente nell'analisi della validità del consenso, con una valutazione dell'in facto esse. La capacità matrimoniale non sarebbe solo capacità per un atto (il consenso), ma anche per uno stato.

Non si intende qui approfondire l'argomento dell'incidenza, peraltro innegabile, delle malattie psicosessuali quali motivo di nullità, che possono rientrare pienamente nel defectus discretionis iudicii; ciò, d'altra parte, non ci obbliga ad aderire alla teoria di Keating, secondo la quale la capacità per sposarsi si misura in funzione del matrimonio in facto esse.

Detto così, non si avverte chiaramente il carattere veramente rivoluzionario della proposta. In effetti, se con la tradizione canonica si intendesse il matrimonio in facto esse come il vincolo coniugale, il riferimento ad esso della capacità sembra comunque scontato. Bisogna però rendersi conto di una ambiguità molto profonda, diventata oggi d'ordinaria amministrazione e che in qualche modo accomuna Gasparri e Keating nel modo di concepire l'in facto esse. Nel linguaggio canonistico questo termine designa spesso la vita matrimoniale, quel perdurare nel tempo dell'unione una volta contratta (si ricordi l'idea di Gasparri), quell'esistenza della coppia in cui si manifesta l'incapacità per malattia mentale (secondo la proposta di Keating). Il matrimonio viene così spezzato in due realtà - l'atto consensuale e la vita matrimoniale -, e la capacità viene misurata in relazione ad entrambe quelle realtà. Peraltro, è lo stesso termine «matrimonio» quello che soffre un'erosione assai profonda nella cultura occidentale dominante: quando si afferma che un matrimonio è fallito, è palese che si sta parlando della convivenza, non del vincolo.

Riferire la capacità matrimoniale alla vita matrimoniale è un grave errore anzitutto per una ragione molto semplice: perché quella vita non può essere identificata con il matrimonio. La storia di un matrimonio concreto comprende normalmente molteplici situazioni, intrinseche ai coniugi o provenienti dall'esterno, che condizionano lo sviluppo esistenziale del rapporto coniugale. A chiunque sembrerebbe del tutto spropositato richiedere per la validità del matrimonio la sicurezza di una perfetta realizzazione matrimoniale e familiare, poiché in tal caso il matrimonio indissolubile sarebbe semplicemente impossibile. Di fatto però sembra che talvolta sia un criterio di tale genere ad ispirare certi giudizi sulla capacità per sposarsi.

Si potrebbe obiettare che se la vita matrimoniale diventa punto di riferimento per la capacità, si dovrà certamente restringere tale schema di pensiero ai soli casi in cui dal momento delle nozze la persona era psichicamente del tutto inabile per vivere il rapporto coniugale. Tale restrizione poggia sulla considerazione del matrimonio quale realtà che sorge in un momento dato, e che essendo indissolubile non viene a meno in virtù di un'incapacità successiva alle nozze. Questa idea è talmente essenziale nel sistema matrimoniale canonico, che molto difficilmente viene direttamente contestata. In ambito giuridico si può però svuotare di fatto una costruzione molto ben intenzionata, eliminandone le limitazioni non gradite, mediante un'applicazione pratica che sappia sfruttare convenientemente una debolezza della stessa costruzione. La debolezza in questo caso è evidente: se il riferimento alla vita matrimoniale si prende come unità di misura della capacità matrimoniale, si potrà certo continuare ad attribuire tutte le incapacità al momento della nascita del vincolo, ma il vero criterio sarà la fattualità del rapporto di coppia, in modo tale che dietro i fallimenti si debba trovare quasi necessariamente una spiegazione nell'ottica dell'incapacità ab origine. Non si può confondere una semplice manifestazione dell'incapacità durante l'unione - rilevante agli effetti probatori -, con la proiezione al momento delle nozze sotto forma di incapacità consensuale di quello che non è altro che un fallimento della convivenza dovuto ad altre cause.

Il vincolo, teoricamente affermato, viene disconosciuto, perché la dinamica dell'orientamento verso l'aspetto storico-esistenziale del matrimonio comporta la ricerca aprioristica della nullità laddove si riscontri la rottura del rapporto di fatto. I mezzi concettuali per arrivarci sono secondari, e di fatto possono variare a seconda dei momenti e dei contesti culturali, non escludendosi il ricorso ad altri capi di nullità diversi dall'incapacità. Ciò che è essenziale è la confusione tra matrimonio e vita matrimoniale, con la sostituzione del primo mediante la seconda.

c) La dottrina di Hervada

A mio parere, l'autore che più lucidamente ha colto in questi anni l'importanza della nozione di matrimonio per l'intero diritto matrimoniale canonico è stato Javier Hervada. Le critiche che ho appena esposto s'ispirano ai suoi scritti. Adesso dobbiamo soffermarci specificamente sulla sua visione della capacità matrimoniale in rapporto all'essenza del matrimonio. Prendo in considerazione il suo studio Essenza del matrimonio e consenso matrimoniale, del 1980, di recente tradotto in italiano.

Nella parte relativa alla capacità per il consenso, l'autore tiene ben presenti le teorie di questi ultimi decenni sull'incapacità. Egli scrive poco prima del Codice del 1983, ma le sue riflessioni si collocano ad un livello fondamentale, tale da poter essere usate anche per l'interpretazione ed applicazione del canone 1095.

Hervada insiste sull'attualità della capacità rispetto all'atto di contrarre: «Che la capacità debba essere attuale vuol dire non solo che deve essere posseduta al momento di contrarre, ma anche che si tratta di una capacità per l'atto del contrarre, non di una capacità per lo status coniugale. Rispetto allo status matrimoniale, l'anomalia psichica si considera un difetto ed un ostacolo per il suo normale e felice sviluppo, oltre che una richiesta al coniuge sano di attivarsi, in considerazione dello status del coniuge infermo, per attuare la finalità del mutuo aiuto e le opere dell'amore coniugale; si tratta, in definitiva, di una disgrazia per entrambi i coniugi, non di una situazione incompatibile con lo status coniugale. Pertanto, l'anomalia psichica è incapacità solo quando impedisce la validità dell'atto di contrarre».

Analizza poi i capi prospettati in quegli anni in tema di incapacità, e distingue due gruppi: «Il primo comprende quelle anomalie della personalità che impedirebbero l'adempimento degli obblighi coniugali, determinando nel soggetto una incapacità a dominare gli impulsi e gli stimoli ricevuti, contrari senza possibile resistenza a dette obbligazioni. Simili anomalie non sembra possano costituire capi di nullità distinti dalla capacità di prestare il consenso. Volere l'altro come coniuge, che è l'atto di consentire, implica assumere rispetto a questi taluni doveri specifici. Orbene, se realmente si danno simili anomalie, mi sembra chiaro che rendano incapace ad assumere l'altro come coniuge, perché, a meno di confondere il volitum con il voluntarium (ossia, quanto è desiderato - anche ardentemente - con la volontà, con ciò che è efficacemente voluto), non sembra che si possa avere un atto volontario di volere l'altro come coniuge, se la ragione non è capace di dirigere la volontà, e questa è incapace ad adempiere le obbligazioni che apparentemente si assumono. In questo caso, il volere i doveri coniugali è un volere inefficace, che non trapassa i confini del volitum, e pertanto l'atto di assumere l'altro come sposo non è un vero voluntarium»

Circa le incapacità del secondo gruppo, esse «discenderebbero da anomalie che, rendendo incapaci rispetto al consortium omnis vitae, alla piena e matura integrazione di entrambi i coniugi, vizierebbero in radice, rendendolo nullo, l'atto del prestare il consenso. È chiaro che simili teorie scaturiscono dal collocare il nucleo fondamentale del matrimonio nel suo divenire storico. Il matrimonio, più che una unità stabilita, sarebbe un continuo farsi; prima che natura sarebbe storia, prima che essenza sarebbe esistenza. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad una concezione del matrimonio antitetica rispetto a quella che abbiamo esposto e sostenuto; sul punto è inutile aprire il dialogo sul tema della capacità, perché il suo contesto adatto è la nozione stessa del matrimonio».

Alla base di queste affermazioni vi è, in primo luogo, un modo di comprendere lo stesso consenso matrimoniale: dopo aver ricordato le tesi sullo ius in corpus, sul consortium omnis vitae, oppure sulla comunità di vita ed amore come oggetto del consenso, Hervada afferma: «A me sembra, invece - non solo né principalmente per deduzione da ciò che penso riguardo all'essenza del matrimonio, ma per un'osservazione elementare della realtà -, che ciò che vogliono e devono volere i contraenti sia la persona dell'altro nella sua coniugalità. Devono volere, e questo è l'oggetto del loro atto di prestare il consenso, l'altro come coniuge, secondo ciò che questo significa sul piano della natura. Devono volere l'altro come coniuge, con un atto di indole causale: voler darsi come coniuge e ricevere l'altro come tale, qui ed ora.

«Ma abbiamo visto prima che il consenso è causa del vincolo in quanto produce il passaggio dalla potenza all'atto per ciò che concerne l'unità nelle nature; questa unità è un vincolo di diritto naturale. Sulla base di ciò, quale è la funzione del consenso? La sua funzione è di prendere l'altro come coniuge, di volerlo hic et nunc come tale, scatenando così l'atto dell'unità nelle nature che prima era a livello di potenzialità; per questo, l'oggetto proprio del consenso è, come si diceva, la persona dell'altro in quanto uomo o in quanto donna, ossia nella propria coniugalità. Ciò è quanto è scelto, quanto è voluto, quanto è preso ed assunto; in definitiva, è così come se si vuole il matrimonio nell'atto di contrarre, volendo prendere l'altro come coniuge». Considerazioni identiche si possono formulare dal punto di vista della donazione di sé, che è donazione della propria persona nella sua coniugalità all'altro.

Benché l'autore avverta che la sua comprensione del consenso non procede né solo né principalmente dalla sua concezione sull'essenza del matrimonio, il prosieguo della sua esposizione evidenzia l'armonia e la mutua illuminazione tra le due tesi, sorrette da un realismo - nel senso classico del termine, cioè di un'apertura alla realtà non solo empirica, ma anche metafisica - che purtroppo non è stato molto corrente tra i matrimonialisti del XX secolo. Sono ormai molti anni che Hervada imposta il diritto matrimoniale nell'ottica del matrimonio in facto esse, inteso come unione di giustizia tra le persone, da non confondere con la sua realizzazione storica nella vita matrimoniale. Ma il fondamento di queste asserzioni è la visione del matrimonio come unità nelle nature. Questa visione è la vera chiave di volta del pensiero matrimonialistico di Hervada, un'idea che è sempre operante e decisiva nel mettere a fuoco i più svariati aspetti della realtà matrimoniale, compresa la capacità.

«Presupposta la distinzione di sessi e considerando il sesso come una forma accidentale di individuazione completa della natura umana, uomo e donna appaiono caratterizzati da una struttura spirituale e corporale differenziata, che possiamo chiamare mascolinità e femminilità. Orbene, l'unità nelle nature si produce per il vincolo giuridico di partecipazione e di comunicazione reciproci nella mascolinità e nella femminilità - intese, insisto, come la totale struttura spirituale e corporale differenziata -, in virtù della quale uomo e donna si rendono reciproci co-possessori. Per questo co-possesso ciascuno dei coniugi partecipa - giuridicamente, non ontologicamente, giacché non sarebbe possibile - al dominio che ognuno di loro ha, per il fatto di essere persona, sul proprio essere, ed è chiaro che detta partecipazione è limitata alla femminilità ed alla mascolinità. Il matrimonio, prima di essere, come è, unione nell'attività, nella vita e nell'amore, è vincolo giuridico nell'essere, è unità nelle nature».

La densità di questo paragrafo solo può essere diluita mediante l'accesso diretto ai testi dell'autore. L'ho riprodotto come sintesi e come assaggio, che possa invitare ad una lettura serena. Sono convinto, infatti, che solo l'approfondimento nell'essenza del matrimonio possa fondare una teoria ed una prassi veramente giusta nel delicato ambito della capacità e dell'incapacità.

5. Necessità di operare sempre con un adeguato concetto di matrimonio nella soluzione dei casi matrimoniali

Dopo il Codice del 1983 disponiamo di una legge universale della Chiesa, che contiene una norma esplicita sull'incapacità consensuale, il celebre canone 1095. Dalla situazione precedente de lege ferenda siamo passati al possesso di una lex condita, da interpretare ed applicare. Ciò facilita certamente il lavoro della dottrina e della giurisprudenza.

Senonché basta un minimo contatto con le questioni sull'incapacità per allontanare ogni illusione sulla facilità del compito di giudicarle. In questo caso è fin troppo evidente qualcosa che si verifica in qualsiasi problema giuridico: con la sola lettera della norma si può arrivare a risultati molto diversi. Per comprendere quella stessa lettera occorrono altri elementi di giudizio, non offerti dal testo legale.

Da una parte, occorre una conoscenza adeguata del caso singolo. Sull'importanza della prudentia iuris nei tribunali ecclesiastici non si insisterà mai sufficientemente. Si tratta di un vero livello della conoscenza del diritto, fondamentale perché si realizzi la praticità dello stesso diritto. Il dialogo con i periti nelle scienze psicologiche e psichiatriche ha una finalità precisa: conoscere i particolari del caso. Se invece presunti risultati di quelle scienze, presentati in linguaggio tecnico, portano a conclusioni che si offrono al giudice in modo prefabbricato, senza che ciò entri veramente nell'analisi e nella valutazione delle caratteristiche uniche della situazione, allora si è caduti nella semplice manipolazione del processo matrimoniale.

Ma più importante ancora è la conoscenza di ciò che è il matrimonio. Le parti, gli avvocati, i difensori del vincolo, i giudici hanno sempre in mente una certa idea del matrimonio. Questa idea, più che nei libri e nelle aule, ha maturato nella vita, nell'esperienza della famiglia dove si è nati, in quella che i coniugi hanno formato ed in altre con cui si è a contatto quotidiano. Il buon senso, sorretto dal senso cristiano della fede, coglie la specificità del matrimonio, anche quando non sia in grado di offrirne una presentazione teorica. Al contrario, le esperienze negative, soprattutto in un contesto culturale che le giustifica, possono deformare profondamente il concetto di matrimonio, riducendolo al piano dell'incontro effimero ed egoistico. Anche un malinteso atteggiamento di solidarietà con le coppie in difficoltà può portare allo stesso esito, tanto più pericoloso quanto più si riveste delle apparenze di un nobile aiuto pastorale.

In conclusione, il mio discorso potrebbe riassumersi in questi semplicissimi termini: per affrontare le questioni sulla capacità per sposarsi, e tutte le questioni giuridico-matrimoniali, non vi è una garanzia più efficace di giustizia che una ferma e personale adesione alla verità sul matrimonio.


Palestra proferida na Pontifícia Universidade «della Santa Croce», Roma, setembro de 2001

In questo senso, cfr. quanto scriveva negli anni sessanta A. Sabattani, L'evolution de la jurisprudence dans les causes de nullitè du mariage puor incapacité, in Studia Canonica, 1 (1967), p. 150. L'autore parlava di un «criterio dinamico», e lo descriveva mediante il paragone di una catena di lavorazione: l'incapacità sarebbe un difetto in tale catena.

Si vedano ad es. gli ampi ed interessanti lavori di E. Tejero: Calificación jurídica de la amencia en el sistema matrimonial canónico, in Ius Canonicum, 18 (1978), pp. 153-220; La discreción de juicio para consentir el matrimonio, in Ius Canonicum, 22 (1982), pp. 403-534; e la suggestiva presentazione di J. Carreras, L'antropologia e le norme di capacità per celebrare il matrimonio (i precedenti remoti del canone 1095 CIC ‘83), in Ius Ecclesiae, 4 (1992), pp. 79-150.

Cfr. infra, n. 5.

Su questa distinzione, cfr. P.-J. Viladrich, Il consenso matrimoniale, Giuffrè, Milano 2001, pp. 14-26.

Cfr. J.R. Keating, The Bearing of Mental Impairment on the Validity of Marriage, Pont. Università Gregoriana, Romae 1964.

Esse sono state oggetto di due recenti raccolte: cfr. in spagnolo J. Hervada, Una caro. Escritos sobre el matrimonio, EUNSA - Instituto de Ciencias para la Familia, Pamplona 2000; e in italiano, Studi sull'essenza del matrimonio, Giuffrè, Milano 2000.

P. Gasparri, Tractatus canonicus de matrimonio, 2a. ed. dopo il CIC-17, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1932.

«Nos modo loquimur precipue de matrimonio in fieri: de matrimonio in facto esse sermo erit in cap. VII» (Tractatus, cit., I, p. 13).

«(...) matrimonium in facto esse est ipsemet contractus matrimonialis qui celebratus fuit quique permanet cum consensu et inductis iuribus et obligationibus matrimonialibus» (ibidem, I, p. 12).

«(...) matrimonium est vere consensus bilateralis, licet ordinis longe superioris praesertim inter baptizatos, cum sit legitimus consensus duorum in idem placitum, obligationem inducens in utraque parte ex iustitia commutativa aliquid praestandi vel omittendi» (ibidem, I, p. 14).

Cfr. ibidem, I, pp. 15-18. È la dottrina accolta dal CIC-17 al can. 1081 § 2.

Cfr. Tractatus, cit., II. pp. 12-16.

«Ad consensum contractualem in genere et matrimonialem in specie necessarium esse usum rationis, qui septennio completo adesse solet, palam est» (ibidem, II, p. 12).

«At non sufficit usus rationis simpliciter, sed requitur discretio seu maturitas iudicii contractui proportionata, ita ut contrahens naturam et vim contractus inte lligere possit (...)» (ibidem, II, p. 12).

«Proinde ut matrimonium ipso naturae iure valeat, utraque pars usu rationis ita pollere debet, ut quid sit matrimonium eiusdemque essentiales proprietates satis intellegere valeat, idest matrimonium consistere in iure perpetuo et exclusivo in corpus in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem (can. 1081 § 2) (...)» (ibidem, II, p. 12).

Cfr. J.R. Keating, The Caput Nullitatis in Insanity Cases, in The Jurist, 22 (1962), pp. 391-411.

«If, in the juridical scheme of causes of nullity, amentia is considered as a defect of consent, the stream of proof will be directed solely towards the moment when consent was expressed. The person's mental condition is contrasted exclusively against matrimonium in fieri, against his actual ability to bring to bear all the cognitional and volitional elements necessary to elicit an integral act of consent, an actus exsistens, a qualified human act wich would suffice, of itself, to generate the marriage bond» (ibidem, p. 393).

«On the other hand, if insanity be considered a diriment impediment, the natural integrity of the act of marital consent will not be the criterion of a valid marriage. The case no longer bends on matrimonium in fieri but, so to speak, on matrimonium in facto esse. The person's mental condition will be a cause of nullity, not necessarily because it incapacitates for the act of consent during the wedding ceremony, but because it renders the person fundamentally unfit for the state of matrimony» (ibidem, pp. 394-395).

Cfr. ibidem, pp. 395-396.

Raccolto in J. Hervada, Studi sull'essenza del matrimonio, cit., pp. 269-313. L'originale spagnolo è stato incluso nella raccolta Una caro, cit., pp. 623-650.

Studi, cit., pp. 298-299.

Ibidem, pp. 299-300.

Ibidem, pp. 300-301.

Ibidem, p. 288.

Cf. Discorso generale sul matrimonio, in ibidem, pp. 111-115.

Ibidem, p. 275.

Sui livelli della conoscenza giuridica, cfr. J.M. Martínez Doral, La estructura del conocimiento jurídico, Universidad de Navarra, Pamplona 1963.