2.       Il carattere assoluto del principio «nemo iudex sine actore»: la determinazione e la modifica della formula del dubbio

2.1.    “Retractatio” sulla possibilità della modifica “ex officio” della formula del dubbio da parte del giudice

Ho sostenuto frequentemente che il giudice potrebbe modificare ex officio il nomen iuris della causa petendi fissato da lui stesso nell'iniziale decreto di formulazione dei dubbi, sempre che lo faccia con un decreto previo alla pubblicazione degli atti e concedendo alle parti l'opportunità di impugnare questa decisione e di proporre nuove prove [1]. Benché questa possibilità sia formalmente vietata dal can. 1514 e dall'art. 136 della DC, essa è accettata dalla giurisprudenza della Rota Romana, alle citate condizioni. In particolare, quando le parti non hanno un avvocato, il can. 1452 (DC art. 71), ho detto, giustifica e perfino richiede questa violazione (puramente formale) della legge, giacché in caso contrario il tribunale sarebbe costretto a dettare una sentenza che riterrebbe ingiusta, avendo la potestà e l'obbligo (imposti dalla stessa legge: can. 1452; DC art. 71) di non farlo [2].

Recentemente, Maragnoli ha segnalato una soluzione che permetterebbe di ottenere gli stessi equitativi risultati a cui mira la citata possibilità di modifica ex officio, senza che ci sia bisogno d'infrangere il divieto stabilito dalla legge sotto pena di nullità (sanabile, poiché detta modifica ex officio deve rispettare pienamente il diritto di difesa delle parti ed il principio «nemo iudex sine actore»). La soluzione proposta dal Giudice milanese parte dal presupposto che il giudice possa convocare formalmente le parti - anche il difensore del vincolo (cfr. DC artt. 56, 59 n. 1, 134) - «per far presente a chi vi abbia interesse l'opportunità di ampliare il tema dell'indagine su cui verte il giudizio» [3]. Logicamente, il difensore del vincolo non potrà mai «agire a favore della nullità del matrimonio» (DC art. 56 § 5). Se, dopo quella riunione (di cui il notaio deve redigere il relativo atto), nessuno dei coniugi propone la modifica suggerita dal giudice, questi non potrà dettare il nuovo decreto di formula del dubbio perché mancherebbe l'istanza della parte (can. 1514; DC art. 136). Questa attività del giudice trova la propria giustificazione nella sua facoltà di convocare le parti per cercare in modo più efficace la verità e, quindi, la giustizia della sentenza (can. 1530; DC art. 177). Una facoltà analoga è implicitamente prevista all'art. 153 § 1 della DC (cfr. can. 1681), quando «nell'istruzione della causa sorge un dubbio molto probabile riguardo alla consumazione del matrimonio»; ed è esplicita nella correlativa norma della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [4].

Malgrado non ci sia una grande differenza reale tra la modifica ex officio della formula del dubbio (con le condizioni segnalate) e l'istanza di parte "indotta" dal giudice, questa seconda soluzione ha l'importante qualità di rispettare il divieto legale e, allo stesso tempo, di evitare che il giudice informi privatamente la parte attrice, violando l'uguaglianza tra le parti e il tassativo divieto non solo di ricevere dalle parti (can. 1604 § 1; DC 241), ma a fortori anche di trasmettere loro «informazioni che rimangano fuori dagli atti di causa». Per questi e altri motivi, sui quali non è possibile soffermarsi più a lungo in questa sede, ritengo che la proposta di Maragnoli debba essere probabilmente accettata.

Fatta questa puntualizzazione, è opportuno ricordare il potere del giudice di precisare il nomen iuris di una causa di nullità del matrimonio, perché tale facoltà incide notevolmente sulla comprensione del concetto della conformità equivalente, manifestando ancora una volta l'esistenza dell'"ecologia processuale". Questa facoltà del giudice ha poca rilevanza quando le parti si avvalgono dell'assistenza di avvocati. Questi proporranno non solo i fatti principali, ma anche il o i capita nullitatis pertinenti, che (a prescindere dal fatto che possano essere provati o meno fino a produrre la certezza morale nel giudice) rifletteranno adeguatamente il nomen iuris della causa petendi. Tale potere ha di contro un'enorme rilevanza quando le parti non usufruiscono di assistenza tecnica, evenienza questa comune nella maggior parte dei tribunali della Chiesa (DC artt. 115, 116 § 1 nn. 2 e 3, 127 §§ 2 e 3, 135).

L'opportunità di riferirsi a questo potere del giudice deriva dal fatto che la giurisprudenza della Rota Romana è venuta progressivamente approfondendo la distinzione tra il concetto di causa petendi (il fatto principale, frequentemente chiamato "giuridico", che, secondo la parte attrice, rende nullo il matrimonio) e quello di nomen iuris dell'azione (il capo o i capi di nullità), proprio al fine di recuperare l'istituto della conformità equivalente, che era già riscontrabile nel diritto classico. Infatti, in buona misura, si tratta proprio di un "recupero", perché questi concetti, che possono sembrare innovativi, in realtà hanno radici profonde nella storia del processo canonico, il quale, a sua volta, si ispira, anche per quanto attiene al concetto di conformità equivalente, al diritto romano, come è stato ricordato recentemente in uno studio di Pappadia [5], alla cui lettura rimando.

Parte importante della dottrina che critica l'impostazione della conformità equivalente sostenuta dalla "seconda" posizione della giurisprudenza rotale (che ritengo essere stata accettata dalla DC, malgrado a prima vista possa sembrare il contrario) lo fa disapprovando la potestà del giudice di dare il nomen iuris (di indicare il o i capita nullitatis) ai fatti principali (la causa petendi) presentati dalle parti [6]. Tuttavia, questa potestà era già affermata dai decretalisti classici, come l'Ostiense o Durante, poiché la parte attrice doveva soltanto indicare i fatti principali, chiamati anche causae petendi, soddisfacendo in questo modo il principio «nemo iudex sine actore» [7]. Lega - autore dell'ultimo grande trattato di diritto processuale decretalista, consulente della Commissione di codificazione fin dalla sua costituzione nel 1904, membro della Commissione che, dal 7 marzo 1907, ha studiato i primi progetti del libro «de iudiciis» del CIC 1917 [8], primo Decano della Rota Romana dopo la sua ricomposizione nel 1908, autore della importante introduzione al primo volume della giurisprudenza rotale [9], ecc. - confermava la dottrina classica nelle sue Praelectiones del 1905 [10]. Pertanto, nel diritto canonico previo al Codice, per la conformitas sententiarum bastava l'identità dei fatti principali, della causa petendi identificata appunto coi fatti principali, anche nel caso in cui il nomen iuris dell'azione (la cui determinazione era di competenza del giudice) fosse stato diverso. La cosa importante era che le sentenze corrispondessero alla domanda dell'attore, identificata quest'ultima coi fatti principali addotti dallo stesso attore, con la causa petendi cioè, e non col nomen iuris dato dal giudice [11].

Tuttavia, il CIC 1917 non precisò quali siano gli elementi che danno luogo alla conformità tra due sentenze (cfr. can. 1902), benché sembri logico ritenere che non abbia avuto l'intenzione di modificare il sistema decretalista. La lacuna fu colmata nel 1936 dall'art. 218 § 2 della PME che, invece, definì la conformità facendo riferimento non già alla causa petendi ma al nomen iuris, vale a dire al caput nullitatis: «ob idem nullitatis caput». Malgrado questa intenzionale restrizione del concetto di conformità operata dalla PME, la giurisprudenza rotale non lasciò cadere il tradizionale concetto di conformità, che non era necessariamente legato al nomen iuris (al caput nullitatis), ma lo era invece alla domanda dell'attore costituita dai fatti principali (dalla causa petendi), citando, a volte, la dottrina dei decretalisti [12]. Infatti, compete soltanto ai coniugi indicare l'oggetto del processo, ossia segnalare i fatti principali (la causa petendi), in applicazione dell'essenziale principio «nemo iudex sine actore». Mentre invece è compito del giudice quello di dare, nel decreto di formulazione del dubbio, il nomen iuris, stabilire il capo di nullità (uno o più, in particolare se consideriamo il litisconsorzio attivo e la possibilità della riconvenzione [13]), oltre che di potere e perfino dover fare uso dell'incisiva potestà inquisitoria istruttoria riconosciuta al giudice dalla legge (DC art. 71). Ciò non toglie che, quando la parte attrice si avvale dell'assistenza di un avvocato, il libello di domanda, abitualmente, proporrà uno o più nomina iuris (facendo confluire la causa petendi nei capita nullitatis) che, salvo rare eccezioni, il giudice accoglierà nel decreto di formulazione del dubbio.

Un settore particolare della giurisprudenza rotale (di cui solitamente De Jorio viene ritenuto essere il rappresentante emblematico), da una parte, approfondendo questi concetti classici, afferma correttamente che la causa petendi contenuta nella domanda della parte attrice non si riferisce propriamente alla ragione giuridica (il nomen iuris, il caput nullitatis) talvolta invocata dall'attore nella sua domanda; la causa petendi consiste nel fatto principale da cui può provenire la nullità del matrimonio: la causa petendi appartiene all'ambito dell'in facto e non a quello dell'in iure [14]. Ma, dall'altra parte, questa tendenza giurisprudenziale arriva a conclusioni illegittime quando afferma la totale discrezionalità del giudice riguardo alla possibilità di modificare il nomen iuris del o dei capita nullitatis, a prescindere dalla richiesta avanzata dalle parti, senza il dovuto provvedimento motivato, previo alla decisione sul merito. Questa illegittima discrezionalità assoluta potrebbe perfino permettere al tribunale di modificare il caput nullitatis nella stessa sentenza, contro la norma che impone che vi sia congruenza tra la formula del dubbio e la sentenza definitiva. Allo stesso tempo, qualunque cambiamento del nomen iuris (del capo di nullità) realizzato dai successivi tribunali potrebbe dar luogo alla conformità equivalente delle sentenze, perché tali sentenze sarebbero fondate su gli stessi fatti principali ipso facto, automaticamente, aprioristicamente e, pertanto, illegittimamente, non solo per la "prima" ma anche per la "seconda" posizione giurisprudenziale poiché i fatti principali (la causa petendi) possono essere presentati soltanto dalle parti [15].

Diversi sono, infatti, i concetti cui si ispira questa "seconda" posizione. Per essa i fatti principali indicati inizialmente dall'attore possono portare ad una reale diversità di "capita nullitatis", non soltanto nei pochissimi casi che vengono tenuti in considerazione dalla posizione giurisprudenziale più restrittiva, come subito vedremo. Questa molteplicità di "nomina iuris" può essere esplicitata nell'iniziale decreto di formulazione del dubbio nella prima istanza, o nella sua legittima modifica in quel grado del giudizio, o nella formulazione del dubbio effettuata dal tribunale d'appello o di ulteriore istanza (necessariamente nel contesto del processo ordinario, mai nel «processus brevior») quando la parte attrice chiede di aggiungere ai precedenti un nuovo caput nullitatis. Perché sia possibile la conformità equivalente nel rispetto del "secondo" atteggiamento della giurisprudenza rotale, il nuovo nomen iuris deve essere concretamente implicato nei fatti principali indicati nella prima istanza, anche quando nell'istanza ulteriore si alleghino nuovi fatti di natura secondaria e cioè soltanto probatoria. La novità del fatto principale posteriormente addotto, quindi, è tale soltanto in apparenza, perché in realtà esso può essere ricondotto a quelli iniziali con cui ha qualificati elementi comuni. Evidentemente, il principio «nemo iudex sine actore» impedisce che il tribunale di seconda istanza che riceve la causa ex officio dal tribunale di prima ex can. 1682 § 1 (DC art. 264) - dopo la dichiarazione della nullità del matrimonio soltanto per uno dei capi concordati, senza che la parte attrice si appelli contro la decisione negativa dell'altro o degli altri capi - possa pronunciarsi ex officio, una volta che la causa sia stata rinviata al processo ordinario, su qualcuno dei capi decisi negativamente in prima istanza e non citati espressamente nella nuova formula del dubbio. La situazione è analoga all'introduzione ad opera dalle parti di un nuovo capo in appello ex can. 1683 (DC art. 268) [16].



 [1]           Cfr. J. Llobell, «Quaestiones disputatae», cit., 618-622; Id., Il diritto al contraddittorio nella giurisprudenza canonica, cit., 55-56; Id., La nullità insanabile della sentenza per un vizio attinente le parti (can. 1620, nn. 4, 5 e 6), in Aa.Vv., La querela di nullità, Città del Vaticano 2005, 125-127; Id., Il concetto di «conformitas sententiarum», cit., 226-230; Id., Ancora sulla modifica «ex officio» del decreto di concordanza del dubbio, in Ius Ecclesiae 17 (2005) 742-758; Id., La pubblicazione degli atti, la «conclusio in causa» e la discussione della causa (artt. 229-245), in P.A. Bonnet - C. Gullo, «Dignitas connubii». Parte terza, cit., 545-547.

[2]           Per la considerazione dei motivi che, a mio parere, permettevano questa possibilità rimando agli studi appena richiamati.

[3]           G. Maragnoli, La formula del dubbio (artt. 135-137), in P.A. Bonnet - C. Gullo, «Dignitas connubii». Parte terza, cit., 129. Cfr. ibidem, 126-130.

[4]           «Quoties in instructione causae nullitatis matrimonii, quodcumque fuerit caput, dubium valde probabile emerserit de non secuta matrimonii consummatione, tribunal, praeteriendo an invaliditas matrimonii evinci possit vel non, rem cum partibus communicat, ...» (Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, Litterae circulares de processu super matrimonio rato et non consummato, 20 dicembre 1986, art. 7, in Enchiridion Vaticanum, vol. 10, nn. 1012-1044, in Communicationes 20 (1988) 78-84, e in Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, Collectanea documentorum ad causas pro dispensatione super «rato et non consummato» et a lege sacri coelibatus obtinenda, inde a Codice Iuris Canonici anni 1917, Città del Vaticano 2004, 119-124.

[5]           Cfr. F. Pappadia, Alcune note in tema di sviluppi storici dell'istituto della conformità sostanziale delle sentenze, in Ius Ecclesiae 20 (2008) 547-565; F. Salerno, La doppia sentenza conforme nel processo matrimoniale canonico: ipotetici precedenti medievali, in Verità e definitività della sentenza canonica, cit., 7-18.

[6]           Cfr. G. Erlebach, Problemi di applicazione della conformità sostanziale, cit., 495-496 e 500; S. Villeggiante, La conformità equivalente, cit., 195-203.

[7]           «Libellus debet continere in se causam, seu factum, quare petitio fiat» (Henrici de Segusio Cardinalis Hostiensis Summa Aurea, L. A., Venetiis 1624, L. II, tit. De libelli oblatione, n. 5, 471). «Si e uno facto una tantum resultet actio, tunc sufficit causam sive factum simpliciter proponi ... Si vero ex eodem facto plures oriantur actiones ... exprimere debet [actor], qua malit experiri, ut reus certificetur. (...) sufficit factum simpliciter proponere, quoniam de sola veritate curandum, et non de apicibus iuris civilis» (Speculum Iuris Guglielmi Durandi, Apud Heredes Vincentii Valgrisii, Venetiis 1626, L. II, tit. De actione seu petitione, § 2 Utrum, nn. 2 e 4, 358). Le citazioni le prendo da F. Pappadia, Alcune note in tema di sviluppi storici dell'istituto della conformità, cit.

[8]           Cfr. J. Llobell - E. De León - J. Navarrete, Il libro «de processibus» nella codificazione del 1917. Studi e documenti, vol. 1, Cenni storici sulla codificazione. «De iudiciis in genere», il processo contenzioso ordinario e sommario, il processo di nullità del matrimonio, Milano 1999, 118.

[9]           Cfr. M. Lega, Praefatio, in S. Romanae Rotae decisiones seu sententiae 1 (1909) V-LIV.

[10]         «Actor ... debet exponere facti narrationem et inde innuere ex illo facto quondam sibi ius vindicat ...; ex facti narratione debet clare deduci causa petendi seu actio; tamen non est necesse nomen actionis proprium innuere, sed sufficit adequatis verbis significare ius ex quo petatur» (M. Lega, Praelectiones in textum iuris canonici, De iudiciis ecclesiasticis civilibus, vol. 1, ed. 2, Romae 1905, nn. 402-403, 361-362). Cfr. F.X. Wernz, Ius decretalium ad usum praelectionum in scholis textus canonici sive iuris decretalium, vol. 5-1, Prati 1914, n. 384, II, 313-314; F. Roberti, De Processibus, ed. 4, In Civitate Vaticana 1956, n. 248, I-II, 583-584.

[11]         Cfr. F. Pappadia, Alcune note in tema di sviluppi storici dell'istituto della conformità, cit., passim.

[12]         Per i dati di questa numerosa giurisprudenza, cfr. Giurisprudenza dei tribunali apostolici, in Verità e definitività della sentenza canonica, cit., 153-234; G. Erlebach, Problemi di applicazione della conformità sostanziale, cit., passim; G.P. Montini, Alcune questioni processuali intorno alla decretazione di conformità equivalente, in Periodica 95 (2006) 496-510; N. Schöch, Il principio della duplice conformità delle sentenze nella giurisprudenza rotale, in Verità e definitività della sentenza canonica, cit., 101-130; Id., Criterios para la declaración de la conformidad equivalente de dos sentencias según la reciente jurisprudencia rotal, in Anuario Argentino de derecho canónico 11 (2004) 267-378; A. Stankiewicz, La conformità delle sentenze nella giurisprudenza, cit., passim; S. Villeggiante, La conformità equivalente, cit., passim.

[13]         Cfr. J. Llobell, La delegación de la potestad judicial "decisoria" y la reconvención en las causas de nulidad del matrimonio tras la Instr. «Dignitas connubii». Breves notas, in Ius Canonicum 47 (2007) 495-503; Id., I tribunali competenti nell'Istruzione «Dignitas connubii», in H. Franceschi - M.Á. Ortiz (a cura di), Verità del consenso e capacità di donazione, cit., 344-347 e 381-385; C.M. Morán, El derecho de impugnar el matrimonio. El litisconsorcio activo de los cónyuges, Salamanca 1998, passim.

[14]         «Animadvertunt quoque Patres iudicum esse speciem seu nomen iuris tribuere factis, ab alterutra vel utraque parte allatis, si actor seu actrix id non praestiterit, aut verum non tribuerit. Ex praemissis consequitur Iudices posse matrimonium nullum declarare ob simulationem totalem, etiamsi partes id nullitatis accusassent ob exclusum bonum sacramenti, et versa vice. Nec desunt casus, in quibus matrimonium nullum declarari possit ob simulationem totalem, etsi ob exclusum bonum fidei nullitatis accusatum. Aliis verbis ratio habenda est factorum, quae partes attulerint atque comprobaverint, non nominum iuris, quae iisdem tribuerint. Consequitur quoque ex praemissis habendas esse conformes duas sententias, quae eisdem nitantur factis, etiamsi una matrimonium nullum declaravit ob simulationem totalem, altera ob exclusum bonum sacramenti vel fidei. Aliter concludendum esset, si duo Tribunalia discordarent inter se non modo de nomine iuris sed etiam de factis, quibus, utpote comprobatis habitis, niterentur» (coram De Jorio, sentenza, 13 maggio 1964, Leodien., n. 2, in SRRD 56 (1964) 353-354). Cfr. G. Maragnoli, La formula del dubbio (artt. 135-137), cit., 104-109.

[15]         Per una critica di questi eccessi, cfr. S. Villeggiante, La conformità equivalente, cit., 195-203.

[16]         Morán si mostra preoccupato, giustamente, innanzi alla possibilità che la conformità equivalente possa consentire al tribunale di pronunciarsi sul caput nullitatis dichiarato «non constare de nullitate matrimonii in casu» senza che ci sia stato appello né sia stato accolto nella nuova formula del dubbio (cfr. C.M. Morán Bustos, La cuestión de la conformidad, cit., 555). Vide infra nota 133.