Héctor Franceschi. F.

(Versione provvisoria)

1. La crisi nella comprensione del matrimonio e il suo rapporto con il fenomeno simulatorio.

Uno dei motivi di nullità del matrimonio più frequentemente invocato presso i tribunali ecclesiastici è la simulazione del consenso matrimoniale. In particolare, l'esclusione del bene della prole, l'esclusione dell'indissolubilità e l'esclusione del bonum fidei. In ognuno degli ultimi volumi delle decisioni rotali ci sono una trentina di cause che riguardano questi capi di nullità, con una chiara prevalenza dell'esclusione della prole o dell'indissolubilità. Senz'altro questo è un fatto che deve far pensare alla necessità di un rinnovato sforzo nella preparazione al matrimonio. Senza negare la forza ordinatrice dell'amore coniugale e la inclinatio naturae al matrimonio, che tante volte riescono a correggere le idee e le inclinazioni sbagliate che potrebbero portare i contraenti alla manifestazione di un consenso che non è veramente matrimoniale, non possiamo non dire che la forte presenza di modelli anti-matrimoniali nella nostra società, nella quale esiste una cultura contraccettiva che cerca di imporsi contro una visione della sessualità legata alla responsabilità e alla fecondità; e la presenza di una nozione di libertà che si oppone radicalmente alla stessa possibilità di impegni per tutta la vita, rende più difficile la formazione del vero consenso matrimoniale. Di fronte a queste culture, la famiglia si trova tante volte senza le armi per difendere la propria verità, ed è quindi necessario che tutta la Chiesa -pastori e fedeli- facciano uno sforzo per riscoprire la verità sul matrimonio e la famiglia. Oggi, più che mai, è necessaria la preparazione al matrimonio come una vera catechesi che porti i fidanzati, come attraverso un cammino vocazionale, alla vera donazione coniugale che è fedele, indissolubile e feconda. Anche in questo senso, a nostro avviso, è necessario un maggior collegamento tra pastorale e diritto, tra l'operato dei tribunali e l'azione delle diverse strutture pastorali che si dedicano alla famiglia. L'identificazione dei più ricorrenti difetti nella formazione del consenso matrimoniale può senz'altro giovare ad una efficace funzione di prevenzione delle anomalie consensuali che deve essere fatta in sede di preparazione al matrimonio.

Dinanzi al fenomeno della simulazione, i fedeli dobbiamo prendere coscienza della necessità di uno sforzo aggiuntivo nella difesa della verità del matrimonio, ma non come concetto ideologico o come contenuto di fede, ma come realtà veramente umana, intendendo per questo che il matrimonio riguarda la persona umana e la sua caratteristica essenziale di essere immagine di Dio sin della sua creazione all'inizio dei tempi, perché il matrimonio, come l'essere umano, essendo lo stesso nella sua essenza, è passato per i diversi momenti della storia della umanità: creazione, caduta e redenzione. È necessaria una riscoperta del matrimonio quale unione fedele, feconda e indissolubile, come patrimonio di tutti gli uomini, non soltanto dei cristiani. Perciò, pensiamo che la soluzione alle nullità e alle crisi matrimoniali -che non sono la stessa cosa- non si può trovare nel riservare a un ceto più ristretto e sufficientemente provato la celebrazione del matrimonio in chiesa, come se soltanto chi desse prova di una fede solida potesse accedere al matrimonio cristiano. La soluzione -nel rispetto della vocazione al matrimonio della stragrande maggioranza degli uomini, fondamento dello ius connubii- la dobbiamo trovare nello sforzo per ricostruire una vera cultura della vita e dell'indissolubilità, trovando dei modi culturalmente comprensibili per rispiegare agli uomini la perenne verità sulla dimensione veramente personalistica della sessualità umana che, per essere vera e degna dell'uomo, non può non tener conto delle diverse dimensioni della complementarità uomo-donna e della coniugalità che ne scaturisce. Il ricupero della relazione inscindibile tra matrimonio e famiglia come cammino per spiegare la fecondità, l'indissolubilità e la fedeltà come dimensioni intrinseche del patto coniugale e della relazione coniugale, può senz'altro giovare al conseguimenti di questi scopi essenziali.

Riguardo all'esclusione della prole in particolare, ci sembra importante ribadire, in primo luogo, l'unitarietà del vero consenso matrimoniale di fronte alla dispersione della volontà simulatoria. Da una parte, si deve ammettere che in sede giurisprudenziale e dottrinale, quando si deve definire cosa sia l'esclusione, è necessario dividere per capire, vale a dire, i giudici e gli autori, perché devono distinguere chiaramente tra una vera volontà simulatoria e una volontà sufficiente benché difettosa, hanno bisogno di differenziare i diversi elementi che costituiscono la fattispecie, e allo stesso tempo devono distinguere quello che forma parte dell'essenza del consenso da quello che conviene che ci sia ma potrebbe mancare. Questo, però, non si può fare a scapito della semplicità e unità del vero consenso matrimoniale, che tante volte si esprime consapevolmente in un semplice volere l'altro in quanto coniuge, senza che tutte le conseguenze e i diritti-obblighi che ne scaturiscono siano presenti con volontà attuale nei contraenti. Cioè, è molto più facile sposarsi che simulare, anche tenuto conto della inclinatio naturae al matrimonio e della forza ordinatrice dell'amore coniugale. In questo senso, gli elenchi di diritti e obblighi devono prendersi con molta prudenza, senza pretendere, da parte dei contraenti, una chiara conoscenza ed accettazione di essi perché ci sia un consenso valido, anche perché l'oggetto primario del patto coniugale non sono questi diritti e doveri, ma le persone dei contraenti nella loro coniugalità.

Dallo studio della recente giurisprudenza di merito riguardante l'esclusione della prole, abbiamo individuato alcune questioni che sono state oggetto di analisi da parte dei giudici rotali. Le indicheremo in seguito, rimandando principalmente alle decisioni rotali.

 

2. Alcune questioni dibattute nella giurisprudenza rotale più recente sull'esclusione della prole.

 

a) Il contenuto e il senso della classica espressione «bonum prolis»

Nella giurisprudenza recente si scorge uno sforzo di determinazione del significato della classica espressione bonum prolis. Alcune sentenze, rifacendosi alla dottrina di San Tommaso, sostengono che il bonum prolis in quanto oggetto del consenso significa la prole in suis principiis; altre, lo identificano con la intentio prolis; altre, infine, con l'apertura alla dimensione fecondativa degli atti coniugali, sottolineando la inscindibilità tra la fecondità e la coniugalità, tra il bene dei coniugi e il bene della prole. Per capire bene la diversità di significati che viene dato al termine e superarla, pensiamo che possa essere utile ricordare che la prole come un bene del matrimonio non è qualcosa di totalmente statico, perché c'è prima una apertura, e dopo una realtà che esige un atteggiamento concreto dei coniugi/genitori dinanzi alla persona del figlio, che varia anche a seconda della crescita dei figli, perché non è lo stesso il bene della prole quando i figli sono piccoli e il bene della prole quando questo sono già cresciuti. Comunque, riguardo al momento del consenso, pensiamo che il bonum prolis venga identificato con la donazione/accettazione della dimensione feconda della propria mascolinità/femminilità, che implica la assunzione della potenziale paternità e maternità tra i coniugi. Il problema recente della fecondazione assistita, nella quale è possibile la realtà del figlio senza che ci sia una vera donazione della paternità/maternità coniugali, mette in luce come sia importante capire cosa significhi il bene della prole nella volontà dei contraenti, che non devono indirizzare la loro volontà al figlio a qualunque costo, perché questo è un dono e non un diritto, ma all'altro coniuge in quanto tale, il che implica anche l'apertura agli atti coniugali nel rispetto delle sue dimensioni unitiva e procreativa e alla conseguente potenziale paternità o maternità matrimoniale che deriva dalla coniugalità.

A conferma delle difficoltà nella determinazione del contenuto specifico del bonum prolis, sta il fatto della diversità di significati che nella giurisprudenza rotale troviamo nello spiegare cosa sia il bonum prolis. Quale è quindi il contenuto del bonum prolis in sede di manifestazione del consenso matrimoniale? Una cosa è la necessaria apertura alla potenziale paternità/maternità che deve necessariamente esistere nella donazione coniugale, nella quale il bonum coniugum ed il bonum prolis sono dimensioni inscindibili della coniugalità, e un altra cosa sarà il bonum prolis quando il figlio diventa una realtà concreta ed esistente che esige una particolare cura da parte dei genitori, che potrebbe far sì che il bene della prole si metta persino al di sopra del bene personale dei coniugi. Questa visione dinamica del bonum prolis, a nostro avviso, potrà aiutare a superare una visione del matrimonio e dei suoi fini di taglio individualistico anziché personalistico. Senz'altro, il chiarimento sui significati della classica espressione bonum prolis, gioverà a una migliore e più precisa comprensione della verità o della falsità della concreta volontà manifestata nel segno nuziale. Per capire cosa intende la giurisprudenza rotale recente per bonum prolis in sede di manifestazione del consenso matrimoniale, analizzeremo brevemente il modo in cui la questione viene impostata dalle più recente sentenze pubblicate.

Nella sentenza c. De Lanversin, del 5 aprile 1995, si pone l'accento non sulla prole in sé stessa, ma sul significato della dimensione procreativa dell'atto coniugale. In un altra sentenza, c. Ragni del 4 luglio 1995, si mettono in rapporto il bonum prolis e il bonum coniugum, che non si potrebbero dare l'uno senza l'altro. In questo senso, riconduce il bonum prolis a la dimensione procreativa dell'atto coniugale, non tanto al fatto della reale esistenza o meno dei figli nel matrimonio. Proprio perciò, spiega, non sarebbe esclusione della prole l'intenzione di astenersi dagli atti coniugali per un determinato tempo e persino per sempre (matrimonio verginale). Sarebbe il caso, ad esempio, di decidere di vivere la continenza periodica. Si intende, però, che non si nega il diritto dell'altro coniuge di chiedere il debito coniugale. E in una sentenza c. Bruno del 19 dicembre 1995 si colloca il contenuto del bonum prolis negli atti coniugali aperti alla fecondità, non nella prole in se stessa.

In una decisione c. Burke del 19 ottobre 1995, parlando dello stesso argomento, si afferma che la procreatività sarebbe elemento identificante della relazione coniugale e quello che la specifica e la rende diversa da qualunque altra relazione interpersonale. Un'analisi antropologica sbagliata potrebbe non riconoscere il valore personalistico della procreatività: è un errore dire che la procreatività è un fine istituzionale e non personalistico, perché il vero amore coniugale è un «amor-ad-vitam-apertus». Per questo, non si deve parlare di gerarchia tra i fini, ma di armonia.

Così, non è possibile l'unione delle anime senza una vera e coniugale unione dei corpi, che nella relazione matrimoniale è necessariamente aperta alla terza persona del figlio. Non si può dare una vera unione personale tra i coniugi che non tenga conto di questa dimensione procreativa.

La reale donazione coniugale, per tanto, implica la donazione della procreatività. Non della prole come realtà, ma della potenziale paternità e maternità. In questo senso, la sentenza distingue tra la prole come realtà e la procreatività o prolis in suis principiis: «Talis donatio/acceptatio mutuae ac complementariae potentiae procreativae - scilicet, "bonum prolis", in proprio sensu procreativitatis ("proles in suis principiis") - essentialis est ut mutua auto-donatio sit authentice coniugalis, apta nempe pro constitutione veri matrimonii. Si unus aliave nupturiens positive excludit donum procreativitatis, insequitur quod consensus praestitus ad matrimonium constituendum inadaequatus est. Procreativitatem nempe excludens, quis reapse non donat, nec alteram partem accipit, in plena coniugali dimensione personae».

Anche la decisione c. Huber del 24 novembre 1995 inizia con la distinzione tra la prole intesa come realtà e la prole in suis principiis. Benché appaia chiaro che il bonum prolis riguarda la retta comprensione della dimensione procreativa della coniugalità, in non poche occasioni la giurisprudenza torna sulla volontà di generare come contenuto del bonum prolis. Ma in questo bisogna essere molto precisi. La sentenza rispecchia questa difficoltà per determinare il contenuto del bonum prolis nel momento della manifestazione del consenso: «semper verum manet eum invalide contrahere, qui in consensu praestando intentionem generandi excludit. Censetur intentio prolis exclusa, cum id fiat positivo actu voluntatis ita firmae, absolutae et praevalentis, ut nonnisi destitutum filiis matrimonium quis inire intendat». Cosa succederebbe nei casi in cui per gravi ragioni i coniugi decidessero di evitare la prole rispettando la dimensione procreativa dell'atto coniugale? Ancora di più: sarebbe ammissibile la volontà di entrambi i coniugi di non consumare il matrimonio per motivi giusti? Ci sembra che oggi è possibile che si diano queste situazioni: pensiamo, ad esempio, a coloro che dopo una vita maritale di fatto, con figli già nati, decidessero di regolarizzare la loro situazione, disponendo allo stesso tempo di non avere più figli per ragioni giuste, o al caso di colui che, affetto da una malattia gravemente infettiva, contraesse il matrimonio con la volontà espressa di non consumarlo pensando al bene dell'altro coniuge. Sono esempi che potrebbero sembrare dei casi limite, ma pensiamo possano servire a mostrare la necessità di restare aperti alla realtà del caso concreto, perché il giudizio sulla nullità o la validità deve tener conto del concreto progetto matrimoniale e della sua conformità con i contenuti essenziali della coniugalità al momento del patto coniugale, nonché della realtà delle persone dei contraenti.

A conferma di questa nostra affermazione, sta il fatto che l'elemento determinante non è che i figli ci siano stati o meno, ma la reale volontà dei contraenti al momento delle nozze. La stessa sentenza afferma che, se ci fossero dei figli, si dovrebbe accertare che questi sono nati malgrado tutte le precauzioni prese dai coniugi per evitarli e in seguito ad una volontà escludente che era già presente al momento delle nozze. Lo stesso si afferma del fatto che la donna abbia fatto ricorso all'aborto: non è di per sé prova dell'esclusione, perché tante volte è frutto di cattivi consigli o di inadempimenti degli obblighi matrimoniali da parte del marito, che comunque sono circostanze sopravvenute al consenso. È però chiaro che, qualunque sia la decisione nei confronti dei figli, non basta rispettare la dimensione procreativa, ma è necessario accettare le sue conseguenze, nel senso che una volontà che rifiuti positivamente di ricevere e di farsi carico dei figli che potessero venir concepiti malgrado le cautele prese per cause giuste, sarebbe anche una volontà non matrimoniale.

In questa sentenza si propone ancora il contenuto della classica espressione bonum prolis. La domanda sul contenuto del bonum prolis si potrebbe specificare così: cosa significa che il matrimonio è "ordinato alla procreazione ed educazione della prole"? Le sentenze rotali recenti tornano più volte sull'argomento, riportando la nota affermazione di San Tommaso secondo la quale la prole sarebbe elemento essenziale del matrimonio soltanto in suis principiis. La questione è determinare il significato dell'espressione, perché alle volte viene identificata con la apertura verso la dimensione procreativa degli atti coniugali e alle volte con la cosiddetta intentio prolis. Pensiamo che sia più chiaro identificarla con l'apertura alla coniugalità in tutte le sue dimensioni, particolarmente quella procreativa, perché l'intentio prolis, in se stessa, si potrebbe intendere in modi diversi e poco precisi. Un esempio lo abbiamo nella volontà di prole facendo ricorso ai metodi artificiali di procreazione che, in quanto non rispettano la verità del rapporto coniugale uomo-donna, che è al centro della complementarità coniugale, non è manifestazione di una reale volontà di accettazione dell'altro nella verità della sua condizione sessuata nel matrimonio, il quale implica necessariamente la potenziale paternità-maternità frutto della personale e inalienabile mutua donazione corporale. Il punto del problema è determinare se si accetta e si dona la propria dimensione di fecondità della sessualità, che è inscindibile dalla donazione corporea sessuale tra uomo e donna, non la semplice volontà e ancor meno la semplice intenzione di avere figli. Così come potrebbe esserci una volontà di non avere figli, ma nel rispetto della verità della sessualità, che non necessariamente intaccherebbe la verità della donazione matrimoniale, potrebbe esserci anche una volontà chiara di avere figli che non rispetti questa verità della coniugalità, ad esempio, per la volontà di far ricorso alla fecondazione artificiale, per la volontà di esclusività nella decisione sul come, se e quando avere dei figli. Indubbiamente, come abbiamo già detto, non basta che i coniugi restino aperti alla fecondità ma, dalla stessa prospettiva della verità sulla persona e sul matrimonio, il fatto che la prole venga concepita esige che i coniugi si assumano le conseguenze per quanto riguarda la cura e l'educazione di essa. Questo sarebbe il senso nel quale l'accettazione ed educazione della prole formano parte del bonum prolis come elemento essenziale dell'oggetto del patto coniugale. Perché ci sia consenso matrimoniale valido non è quindi necessaria la presenza di una volontà articolata che consapevolmente accetti diversi obblighi: apertura alla fecondità, accettazione dell'eventuale prole, volontà di educarla, ecc., ma basta che ci sia una reale donazione e accettazione vicendevole come coniugi, con tutto quello che la realtà coniuge implica nella sua essenzialità, specificamente, nell'argomento che ora trattiamo, riguardo alla dimensione procreativa dell'unione coniugale.

Si intende, però, che ciò non deve significare che l'oggetto conscio del patto sia l'interscambio di diritti e di obblighi, ma la reale volontà di donarsi coniugalmente. Nella vera volontà matrimoniale, non c'è un oggetto complesso e articolato del consenso, quasi che i coniugi dovessero positivamente integrare nella loro volontà i diversi elementi: c'è, semplicemente, la volontà di sposarsi, cioè, di donarsi coniugalmente, e da questa reale donazione scaturirebbero i diritti e gli obblighi. Nella volontà simulatoria, invece, questa unicità viene sciolta, quando il contraente che esclude pretende un consenso che abbia alcuni elementi del matrimonio ma  volendo escluderne altri, vale a dire, vuole l'altro come coniuge, ma non con tutto quello che implica l'essere coniuge, escludendo positivamente alcune della dimensioni della coniugalità, la fecondità in questi casi.

Indubbiamente, una volontà che accetti gli atti aperti alla vita ma rifiuti radicalmente la vita stessa o il prendersi cura degli eventuali figli, non sarebbe una volontà matrimoniale, perché anche in questi casi si rifiuterebbe la dimensione di fecondità della coniugalità. Ancora una volta, si scorgerebbe una scissione nell'unità essenziale dell'atto di donazione coniugale il quale, quando è vero, implica la donazione/accettazione della coniugalità con quello che essa implica nella sua essenzialità. Questa unità della donazione, che non esige una complessa formazione di una volontà articolata in un insieme di diritti e obblighi, viene palesata con grande semplicità dalla tradizione liturgica con le parole della celebrazione nuziale, che esprimono il nocciolo delle nozze come manifestazione esterna costitutiva della relazione coniugale: "ti accetto come mio marito / mia moglie, mi dono come tuo marito / tua moglie". In queste semplice parole, quando non si è intromessa la forza distruttrice della simulazione, si contiene tutta l'essenza della vera donazione coniugale.

Nella determinazione del contenuto giuridico del bonum prolis, una sentenza c. Huber del 20 dicembre 1995 parla in primo luogo del diritto-dovere agli atti veramente coniugali: «Si distinguimus in bono prolis id, quod est essentiale, ab eis, quae sunt integrantia vel accidentalia, dicere debemus bonum prolis essentialiter comprehendere ius et correlativam obligationem ac actus matrimonii proprios peragendo». Poi, di seguito, conferma quanto dicevamo poc'anzi: sarebbe anche parte dell'essenza del bonum prolis l'accettazione ed educazione dell'eventuale prole: «Hoc bonum amplectitur iuxta constantem iurisprudentiam canonicam etiam bonum physicum prolis, id est ius et officium ad prolis forte conceptae nativitatem eiusque in vitae conservationem et educationem».

Ciò non significa, però, che oltre a volere i figli sia necessario che i contraenti consapevolmente abbiano una volontà di riceverli, educarli, ecc. Va ribadita ancora la unicità e la semplicità del atto del consenso, cioè, non si può chiedere ai contraenti una volontà articolata indirizzata ai diversi diritti e doveri che scaturiscono dal consenso matrimoniale, perché la volontà matrimoniale, per la sua stessa natura, non va indirizzata primariamente ai diritti-obblighi coniugali, né l'oggetto primario del patto coniugale sono questi diritti e doveri, ma le stesse persone dei contraenti nella loro coniugalità. Nel momento del consenso, quando questo è vero -cosa che si deve presumere (c. 1060)- c'è una volontà di donarsi realmente nella coniugalità, cioè, proprio nella complementarità che scaturisce dalla diversità uomo-donna e, da questa donazione personale, scaturiscono tutti i diritti e doveri coniugali, ma come conseguenza della donazione delle persone, non come interscambio di diritti e doveri realizzato mediante un contratto sinallagmatico. Chiedere una volontà che positivamente, al momento del consenso, accetti tutte le conseguenze giuridiche della donazione coniugale sarebbe chiedere più di quello che esige la realtà del consenso e la realtà della persona umana. Che il consenso simulato sia il rovescio del consenso vero non significa che perché ci sia vero consenso sia necessaria la consapevole assunzione di tutti i diritti e doveri essenziali del matrimonio. La scissione e la dispersione tra i diritti e gli obblighi matrimoniali avviene nel consenso simulato, quando il contraente, volontariamente, decide di fare la scissione: "voglio questo ma non quest'altro"; non invece nel consenso vero, nel quale la vera volontà di donarsi coniugalmente, con tutto quello che implichi la donazione, coinvolge l'insieme dei diritti e obblighi matrimoniali essenziali.

Come dicevamo nel fare l'analisi della sentenza c. Civili del 18 dicembre 1995, non basta che ci sia una volontà chiara di non avere più figli, soprattutto nei casi in cui già c'erano, ma bisogna andare oltre e analizzare la reale volontà dei contraenti al momento di contrarre il matrimonio, perché è possibile una vera volontà matrimoniale nella quale i coniugi abbiano deciso, nel rispetto della verità del matrimonio e delle relazioni sessuali, di non generare più prole per motivi giustificati. La domanda centrale sarebbe, come abbiamo ribadito più volte, se al momento della manifestazione del consenso la volontà interna dei contraenti era una volontà veramente matrimoniale, nella quale c'è una donazione/accettazione vicendevole in tutte le dimensioni essenziali della mascolinità e femminilità, non in astratto, ma nella situazione concreta dei contraenti e secondo un determinato progetto matrimoniale che risponde e rispetta sia la loro reale situazione sia le esigenze della verità sulla persona e sulla sessualità.

Per tutto questo, i giudici devono evitare l'applicazione di categorie rigide o di preconcetti nella soluzione del caso concreto. L'operato del giudice non può mai essere una semplice applicazione di norme o di categorie previamente costruite, ma deve essere una vera azione di prudenza, nella quale, alla luce della verità sul matrimonio e il consenso, e tenendo conto delle realtà del caso concreto, il giudice scorge la verità o la falsità del segno nuziale, sempre alla luce dei principi che informano tutto il sistema matrimoniale della Chiesa.

 

b) Il senso dell'espressione "atto positivo di volontà" adoperata dal legislatore.

Alcune sentenze parlano di un atto positivo di volontà diverso dall'atto di volontà di contrarre il matrimonio, come se esistessero due atti di volontà che si contrappongono. Al riguardo, pensiamo che sia più preciso parlare di una volontà positivamente contraria alla verità matrimoniale, nel senso che, nei casi di esclusione, abbiamo, da una parte, una volontà di mettere in atto il segno nuziale e, dall'altra, una volontà concreta che per il suo contenuto è radicalmente contraria alla verità sul matrimonio, perché ha un oggetto che non è confacente con la coniugalità o con una delle sue dimensioni essenziali. Nel consenso valido non ci sono due atti di volontà, uno di sposarsi e un altro di celebrare il matrimonio, ma un unico atto di volontà che si manifesta esternamente mediante il segno nuziale. Nel consenso simulato, invece, c'è una scissione di questa unità, perché il segno nuziale non rappresenta più quello che dovrebbe essere, ma viene falsato da una volontà determinata ad un contenuto che non è veramente coniugale. Quindi, più che due atti di volontà che si annullano a vicenda, abbiamo una volontà non matrimoniale e una volontà di realizzare il segno nuziale che non corrisponde a ciò che dovrebbe significare.

In una sentenza c. Giannecchini del 28 marzo 1995 si ribadisce la necessità di una causa grave e proporzionata e di un atto positivo di volontà, che viene distinto dalle intenzioni, desideri, ecc. Nel definire cosa sia l'atto positivo di volontà, si legge nella sentenza: «Exclusio absoluta et perpetua, illis scilicet qui dum verba consensum exprimentia profert, firmum gerit propositum in perpetuum excludendi prolis generationem. Hoc sane in casu invalide contrahit».

Come si vede, l'atto positivo di volontà viene identificato con il proposito fermo di escludere la generazione della prole al momento di manifestare il consenso. Non sembra quindi che si debba esigere un doppio atto di volontà: quello di sposare e quello di escludere, ma che al momento di manifestare le parole del consenso vi sia in contemporanea una volontà positiva contraria alla prole.

In un altra sentenza, c. Ragni del 4 luglio 1995, ci sono riferimenti anche alle caratteristiche dell'atto positivo di volontà: «quaevis simulatio vel exclusio quoad matrimonium - solummodo posita in momento manifestationis consensus matrimonialis per actum positivum voluntatis modo actuali vel virtuali elicitum atque simplici forma aut conditione seu pacto vestitum - matrimonialem contractum nullum reddit». Detto questo, ribadisce che gli abusi sessuali o l'inadempimento dei doveri che hanno la loro origine in ragioni gravi o meno sorte dopo il matrimonio, non rendono nullo il matrimonio già celebrato validamente.

La sentenza afferma chiaramente la necessità di determinare l'esistenza nel caso concreto di un atto positivo di volontà di esclusione contrario all'atto positivo di volontà di celebrare il matrimonio. Quindi, sembra affermare come elemento della fattispecie il doppio atto positivo di volontà: «primum elementum probationis desumi debet in detegendo num in singulo casu - contra actum positivum voluntatis nupturientis matrimonium contrahendi - in animo eiusdem elicitus fuerit alter positivus voluntatis actus excludens aliquam proprietatem essentialem aut bonum essentiale eiusdem matrimonii».

In questo senso, nella decisione c. Burke del 19 ottobre 1995 si dice dell'atto di esclusione che deve essere positivo e presente al momento del consenso: «medulla quaestionis est realis mens nupturientis: utrum necne positivo actu voluntatis quendam essentialem aspectum auto-donationis coniugalis exclusisset».

Al riguardo, bisogna approfondire la necessità di un doppio atto di volontà. Forse una precisazione va fatta. Nel consenso simulato non si può parlare di una volontà di contrarre il matrimonio e di una volontà positiva di esclusione, che cancellerebbe la prima. Allo stesso modo in cui nel consenso valido non ci sono due atti positivi di volontà -la volontà di donarsi e la volontà di realizzare l'atto di manifestazione del consenso come volontà diversa-, nel consenso simulato la scissione tra realtà e apparenza non si ha tra due volontà che si trovano allo stesso livello, ma tra la realizzazione del segno nuziale esterno e una volontà interna che non si corrisponde con la vera volontà di donazione coniugale con tutti i suoi elementi: cioè, non ci sono due volontà interne che riguardano il progetto matrimoniale: voglio veramente Tizia come moglie e voglio sposarla, ma non voglio in essa, con atto positivo, una proprietà o un elemento essenziale della coniugalità. La realtà sarebbe piuttosto: voglio costituire il segno esterno nuziale per unirmi a Tizia ma, allo stesso tempo, con una volontà ben determinata, voglio un progetto di vita che è radicalmente incompatibile con la verità che dovrebbe essere manifestata tramite il segno nuziale nel quale le volontà dei contraenti costituiscono il patto coniugale con tutte le sue caratteristiche, proprietà ed elementi essenziali. In questo senso, nell'atto simulatorio, si opera una scissione tra volontà esterna e volontà interna, per cui nel consenso simulato - diversamente da quanto accade nel consenso valido nel quale c'è un'unica volontà che viene manifestata esternamente nel segno nuziale, per cui non c'è bisogno di una volontà di sposarsi e di una volontà diversa di costituire il segno nuziale - c'è uno sdoppiamento della volontà: volontà interna non matrimoniale e volontà di costituire il segno nuziale falsato in quanto non corrisponde con quello che dovrebbe significare. È questo, al nostro avviso, il senso dell'espressione "atto positivo di volontà" adoperata dal Legislatore.

 

c) La distinzione tra «ius» e «usum iuris».

La giurisprudenza non è unanime riguardo alla distinzione tra ius e usum iuris. Alcune sentenze rotali rifiutano l'applicabilità di questa distinzione allo stesso atto del consenso, perché sarebbe inammissibile una volontà di assumere il diritto insieme a una volontà di non obbligarsi. Altre sentenze, invece, continuano ad adoperare la distinzione. Pensiamo che sia più conforme a verità la prima linea giurisprudenziale. La causa delle divergenze, tante volte, si trova in una confusione tra il livello probatorio e quello sostantivo. A livello di prova della simulazione, la distinzione tra una volontà contraria al diritto e la realtà dell'inadempienza dimostrata durante la vita matrimoniale è essenziale, perché soltanto qualora l'inosservanza avesse la sua causa in una volontà positiva presente al momento della manifestazione del consenso si potrà parlare di simulazione del consenso. Assolutizzare questi criteri e applicarli al consenso matrimoniale, a nostro avviso, non gioverebbe alla comprensione di cosa siano il consenso e gli elementi e proprietà essenziali del matrimonio. Come dicevano alcune delle sentenze che abbiamo analizzato, non si vede come sia possibile che, nello stesso atto del consenso, uno dei coniugi si impegni e assuma i suoi obblighi e al contempo si rifiuti radicalmente all'adempimento di essi.

Tra le decisioni che continuano ad adoperare la distinzione tra il diritto e il suo esercizio riguardo alla assunzione del bonum prolis nel momento manifestativo del consenso matrimoniale possiamo indicare una c. Giannecchini del 28 marzo 1995; una c. De Lanversin del 5 aprile 1995, che afferma che non è una distinzione artificiosa ma che risponde alle reali possibilità psicologiche della persona; una c. Ragni del 4 luglio 1995.

La sentenza c. Huber del 20 dicembre 1995 torna sul problema della cosiddetta esclusione temporale della prole, affermando che se questa esclusione è una esclusione ad tempus dello stesso diritto agli atti coniugali in quanto diritto, sarebbe una vera esclusione della prole. Tentando di spiegare la diversità tra la esclusione del diritto e la volontà di non osservarlo, fa uno sforzo di distinzione tra l'intenzione di non obbligarsi e l'intenzione di non osservare gli oneri assunti, affermando che benché logicamente si possa fare la distinzione, psicologicamente è molto difficile che si dia nell'animo dei contraenti, anche perché nei contraenti che veramente escludono quello di cui sono consapevoli è semplicemente della ferma volontà di non avere figli. Pensiamo che il problema non sia soltanto psicologico ma reale, in quanto non si vede quale accettazione della coniugalità e della fecondità ci possa essere in una volontà positiva di non rispettare la dimensione fecondativa dell'atto coniugale e la potenziale paternità-maternità dell'altro coniuge. Si deve comunque evitare la assolutizzazione dei criteri che servono in sede probatoria per distinguere la vera esclusione della prole dal semplice abuso del diritto successivo alla celebrazione del matrimonio.

Invece, nell'ultimo volume delle decisioni rotali ci sono altre sentenze che sostengono l'inapplicabilità della distinzione nello stesso atto del consenso matrimoniale. È il caso della sentenza c. Bruno del 19 dicembre 1995 la quale, citando Staffa, conferma la linea di giurisprudenza già indicata secondo la quale non è possibile, nello stesso atto del consenso, una volontà di assumersi l'obbligo insieme a una volontà positiva di inadempienza: «Consensus matrimonialis proprie dictus, cum voluntate non adimplendi obligationem, nihil aliud esse nisi voluntas sumendi obligationem una cum voluntate excludendi obligationem adimplendi, id est voluntas sumendi obligationem et simul voluntas obligationem non sumendi: quod est contradictorium».

La sentenza c. Civili del 18 dicembre 1995 analizza le diverse interpretazioni della dottrina dell'Aquinate sulla distinzione tra la volontà escludente il diritto e l'esclusione dell'uso del diritto, affermando che questa distinzione tra diritto ed esercizio del diritto è stata molte volte assolutizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. È vero che una cosa è il diritto ed un altra il suo esercizio, ma applicare questa distinzione al momento del consenso non è per niente chiaro. La sentenza, cercando di spiegare il perché di queste affermazioni, approfondisce la natura degli obblighi coniugali, sostenendo che i diritti-doveri riguardanti il matrimonio non possono essere trattati come diritti reali, nei quali sarebbe possibile la scissione tra il diritto ed il suo uso, anche al momento della trasmissione del diritto, come succede, ad esempio, con il diritto di proprietà. I diritti inerenti al matrimonio, che sono diritti personalissimi, non ammettono al momento della loro tradizione questa scissione. Perciò, nel caso del bonum prolis, non sarebbe una vera accettazione del diritto quella di colui il quale dice di donare ed accettare la dimensione feconda della coniugalità ma, allo stesso tempo, nello stesso atto di costituzione del vincolo coniugale, si riservasse o rifiutasse l'uso del diritto o l'adempimento del dovere. Quindi, colui che al momento del consenso ha la volontà positiva contraria all'uso della sessualità conforme alla sua verità, non sta cedendo nessun diritto. Perciò, la distinzione tra diritto e uso del diritto può essere utile nel momento di determinare l'esistenza di una vera esclusione, nel senso che una cosa è escludere un dovere essenziale al momento del consenso, il che renderebbe nullo il matrimonio, e un altra cosa sarebbe l'inosservanza di un dovere che era stato assunto, dovendo il giudice, dinanzi ai fatti concreti della vita matrimoniale, distinguere per chiarire tra l'esclusione vera e propria e il semplice inadempimento degli obblighi per cause che appaiono lungo la vita matrimoniale. Invece, non è giusto fare questa distinzione nell'analizzare la volontà dei contraenti al momento della manifestazione del consenso, come se fosse possibile, al momento di pronunciare il sì, che la persona da una parte ammettesse il diritto e, allo stesso tempo, ne rifiutasse l'adempimento: si può dire che il diritto-dovere è stato accettato quando già sin dal momento fondante del patto c'è una volontà positiva di inadempienza? Pensiamo di no.

La sentenza, tenuto conto di questo chiarimento, spiega in questo modo la tradizionale dottrina di San Tommaso: «Censemus revertendum ad genuinum sensum doctrinae thomisticae: matrimonium invalidum esse si consensu contrahens exprimeret voluntatem contrariam intentioni prolis, seu, utendo terminis vigentis legis canonicae, contrariam ordinationi naturali ad prolis generationem et educationem».

Siamo d'accordo per quanto riguarda il chiarimento sul senso della distinzione tra ius e exercitium iuris, che sarebbe inapplicabile al momento del consenso ma, a nostro avviso, affermare che l'oggetto della volontà è la intentio prolis e non l'apertura agli atti coniugali, cioè, realizzati nel rispetto della dimensione unitiva e procreativa, potrebbe trovare un ostacolo difficile da superare: l'ammissibilità di un consenso che includa la cosiddetta «paternità responsabile». Infatti, la citata sentenza c. Civili, di fronte a questa possibilità, dà una risposta che, a nostro avviso, potrebbe essere malintesa: «Admitti potest in peculiarissimis circumstantiis, accedentibus gravibus causis (...) quod coniuges prolis generationem vitent vel differant, servata tamen castitate aut, sin minus, methodis naturalibus licitisque recurrant ad mulieris fecundationem impediendam (...). Iste autem pactiones concipi possunt in matrimonio in facto esse, non autem in matrimonio in fieri; etenim si positae antequam consensus praestetur, in discrimen trahere possent ipsius consensus valorem, quatenus pervenirent ad spoliandam coniugalem pactionem essentiali ordinatione ad prolis generationem». Sembrerebbe affermare che quello che si può fare lecitamente dopo la celebrazione del matrimonio renderebbe nullo il consenso se si facesse al momento della sua manifestazione. La sentenza, appunto, alla fine della parte in facto ribadisce che «procreatio responsabilis pertinet ad coniuges, non ad contrahentes. Inepte proinde invocatur ad iustificandam voluntatem numquam procreandi, qualis profecto fuit illa ab Actrice elicita». Non basta dimostrare che uno o entrambi i coniugi avevano la volontà di non avere dei figli per motivi più che giustificati, ma è necessario determinare il come, vale a dire, se lei o entrambi erano disposti o meno agli atti coniugali realizzati del rispetto della dimensione fecondativa. Perciò, la nullità sta non nella sola decisione di non avere figli, ma nell'esclusione degli atti coniugali realizzati nel rispetto della loro doppia dimensione unitiva e procreativa, quindi, nella mancanza di una vera volontà coniugale, a causa del rifiuto della dimensione coniugale dell'altro contraente in quello che essenzialmente implica.

Converrebbe, nel caso concreto, delimitare il confine tra l'esclusione del diritto e la volontà determinata totalmente all'inadempimento di questo. Fino a che punto si può affermare che non sia una vera volontà di escludere lo stesso bonum prolis una volontà positiva di non osservare un diritto che forma parte dello stesso consenso? Ha veramente voluto la dimensione feconda della coniugalità colui che già al momento del matrimonio, benché teoricamente ammetta che i figli sono una dimensione essenziale, non è disposto a osservare i suoi obblighi al riguardo? Per rispondere a queste domande, il giudice deve tener in conto ciò che determina la realtà del consenso matrimoniale nel caso concreto, che non sono le idee, le motivazioni, le inclinazioni, ma la reale volontà delle persone. Analogamente, il solo fatto di pensare che i figli sarebbero di intralcio alla vita di coppia non rende di sicuro nullo il consenso matrimoniale, se non c'è una volontà di esclusione, l'avere l'idea chiara che l'ordinazione alla prole è essenziale al matrimonio, se insieme c'è una radicale volontà di non rispettare questa dimensione che si ritiene appartenente al matrimonio, farebbe venir meno il consenso per mancanza di un elemento essenziale del suo oggetto. La risposta alla domanda sulla nullità deve quindi tener conto della reale volontà dei contraenti al momento della manifestazione del loro consenso, non soltanto delle loro idee, opinioni, motivazioni, ecc. Perciò, il solo fatto di aver accertato gli errori presenti al riguardo nell'educazione ricevuta non è prova dell'esclusione della prole o di qualche altro elemento o proprietà essenziale del matrimonio, e non possono nemmeno diventare presunzioni di nullità da dover essere contraddette in giudizio.

d) L'esclusione assoluta e l'esclusione temporanea

In alcune delle sentenze degli ultimi anni riguardanti il bonum prolis, ancora non pubblicate, ci riferiamo alle sentenze degli anni 99 e 2000, uno dei temi che con più insistenza viene fuori è quello della distinzione tra l'esclusione assoluta e l'esclusione temporanea.

Da una parte, la giurisprudenza classica è unanime nell'affermare l'irrilevanza della cosiddetta esclusione temporanea  della prole. Dall'altra, negli anni recenti sono finite nei tribunali delle unioni tra persone che, a quanto pare, avevano deciso di rinviare la prole ad un momento successivo determinato o indeterminato: "quando si sarà consolidata l'unione, una volta sistemati in casa propria, quando ci saranno più risorse economiche, ecc.".

Questo ha fatto sì che qualche autore affermasse che la giurisprudenza rotale stava cambiando nei confronti dell'irrilevanza dell'esclusione temporanea, la quale - dicono - in alcuni casi avrebbe conseguenze invalidanti.

Pensiamo però che non sia questo il problema. Dalle sentenze recenti si evince che la questione determinante non è tanto il fatto che la volontà sia stata quella di escludere assolutamente o temporaneamente la prole, quanto il fatto che la volontà positiva di uno dei contraenti, in alcuni di questi casi in cui sembra esserci semplicemente una volontà di rimandare la prole, era di escludere radicalmente il diritto altrui, nel senso che, benché si prospettasse la possibilità di avere dei figli in futuro, se celebrava il matrimonio con la ferma volontà che questa decisione sul avere o meno dei figli e sul momento, "appartenesse esclusivamente a me", senza riconoscere minimamente il carattere duale del diritto-dovere, il quale appartiene a entrambi i coniugi e non può essere appropriato esclusivamente da uno di essi. Pertanto, più che un cambio dell'indirizzo giurisprudenziale, in alcune di queste sentenze quello che troviamo è un'accurata e più profonda precisazione delle fattispecie, perché i giudici devono evitare di catalogare aprioristicamente le diverse fattispecie in base a delle categorie generali costruite dall'esperienza: ogni casi è diverso e i giudici, benché aiutati dall'esperienza, devono studiare la realtà del caso concreto, per poter decidere secondo verità.

Inoltre, per quanto riguarda le singole fattispecie, in alcuni di questi casi quello che è successo è che il presunto simulante, dinanzi all'atteggiamento favorevole alla prole nell'altra parte, manifestava un'apparente apertura alla prole in un momento futuro, nella misura in cui l'aver esternato prima della celebrazione un netto rifiuto della prole avrebbe potuto causare una reazione nell'altro o un ripensamento della decisione di sposarsi con colui che avesse chiaramente manifestato la volontà di non avere dei figli. In questi casi, come in tutti, più delle parole importa l'accertamento della vera volontà esistente al momento della celebrazione del matrimonio. Per conoscere la verità, bisognerà tener conto dei fatti concreti, delle circostanze, dell'apertura o meno agli atti coniugali fecondi, ecc.

 

C. Un problema concreto nella determinazione del contenuto del bonum prolis: il fenomeno della procreazione artificiale.

Come succede tante volte, l'attenta analisi dei cosiddetti casi limite, che esigono proprio quello che denominavamo azione prudenziale del giurista -perché soltanto l'adeguata conoscenza della verità, insieme alla profonda comprensione del caso concreto, permette di risolvere in maniera conforme alla verità e alla giustizia una data situazione-, ci permetterà di approfondire l'analisi del contenuto essenziale del bonum prolis, come in uno sforzo per ridare senso a un'espressione che, forse perché plurisecolare e insistentemente adoperata, ci ha portato a delle categorie non più chiare e precise. Il confronto tra la classica nozione di bonum prolis e il nuovo fenomeno della fecondazione artificiale, ci auguriamo, servirà a questo scopo di precisazione.

Consapevoli della complessità dell'argomento e dell'abbondantissima bibliografia al riguardo, in questo momento vogliamo soltanto proporre alcune idee dal punto di vista dell'oggetto del consenso matrimoniale, nell'ottica del fenomeno simulatorio. Per fare questo prenderemo spunto dalla stessa nozione di matrimonio e di consenso matrimoniale, messa a confronto con i progetti soggettivi apparentemente matrimoniali che, nella misura in cui includono la volontà di procreare al di sopra della stessa natura del matrimonio quale istituto, per la sua stessa natura, ordinato al bene della prole ed al bene dei coniugi, possono essere in contrasto insuperabile con una vera volontà matrimoniale. Perciò, incentreremo la nostra attenzione sul contenuto reale del bene della prole, argomento trattato da due sentenze c. Stankiewicz: Romana, 26 marzo 1990, e Reg. Latii seu Romana, 22 febbraio 1996. Questa analisi del fenomeno simulatorio dalla prospettiva del fenomeno della fecondazione assistita, a nostro avviso, metterà in luce quanto dicevamo sull'importanza di determinare con chiarezza il significato della classica espressione, adoperata dai canonisti, di bonum prolis.

Non c'è dubbio che le nuove tecniche di procreazione artificiale hanno creato una situazione molto complessa, che necessariamente va approfondita dal punto di vista medico, giuridico, etico e antropologico. Tra le realtà che sono conseguenza delle tecniche di procreazione artificiale e che esigono una adeguata regolazione giuridica, possiamo indicare: la distruzione e manipolazione dell'embrione, la procreazione artificiale in coppie unite in matrimonio, la procreazione artificiale in coppie non sposate, la procreazione artificiale con partecipazioni di terzi (donazione di gameti e maternità di sostituzione), l'anonimato del terzo interveniente, la procreazione "post mortem" e la procreazione nei single. Tutte queste situazioni esigono una accurata disciplina giuridica che tenga conto della verità sull'uomo e sul matrimonio e ne rispetti la dignità. Inoltre, per quanto riguarda la nozione stessa di matrimonio che è alla base di tutto il sistema matrimoniale della Chiesa e della nostra società, gli elementi introdotti dalle tecniche di fecondazione artificiale pongono non pochi problemi alla canonistica, che deve per forza dare delle risposte, alla luce delle verità riguardanti il matrimonio ed il consenso matrimoniale.

Il diffondersi di queste tecniche ha reso necessario un ripensamento sul contenuto stesso, dal punto di vista del personalismo, del bene della prole nel matrimonio, nella misura in cui oggi è possibile la prole senza atto coniugale, e la prole mediante l'intervento di persone estranee alla coppia, senza però una loro partecipazione nella donazione sessuale coniugale in senso stretto e fisico. Oggi, dinanzi all'estendersi delle tecniche di riproduzione artificiale, sono sorte delle nuove domande alla canonistica: la nozione stessa di paternità e di filiazione, il contenuto delle relazioni familiari, il senso e la portata degli impedimenti di parentela, il contenuto giuridico dei tradizionali tria bona del matrimonio. A quest'ultimo aspetto dedicheremo le nostre considerazioni.

Un primo punto è la determinazione del senso e del contenuto della classica espressione bonum prolis. Fino a pochi anni fa, quando il fenomeno della fecondazione artificiale non era molto diffuso, l'ambiente canonistico non aveva sentito il bisogno di definire con chiarezza il rapporto tra fecondazione reale ed intenzione procreativa, se non dal punto di vista della contraccezione. In questo senso, le sentenze riguardanti l'esclusione del bonum prolis ancor oggi si indirizzano alla inscindibilità tra le dimensioni unitiva e procreativa dell'atto coniugale sempre a partire dal fenomeno della contraccezione, che era quello dove l'uomo aveva qualche potere e sul quale poteva quindi agire. Perciò, la dottrina e la giurisprudenza riguardanti l'esclusione del bonum prolis hanno incentrato la loro attenzione sul fenomeno dell'esclusione della dimensione procreativa dell'atto coniugale mediante la contraccezione. Dinanzi alle nuove situazioni, pensiamo che sia necessario fare una  rilettura e approfondimento del contenuto del bonum prolis. Queste nuove problematiche esigono un maggiore approfondimento della comprensione della coniugalità e della stessa natura del matrimonio come donazione di essa con tutte le sue dimensioni di fedeltà, indissolubilità ed apertura alla fecondità.

La strada per dare una risposta a questi problemi, a nostro avviso, non è quella di mettere l'accento sulla moralità dei mezzi utilizzati per avere dei figli, bensì quella della comprensione della natura e del contenuto del bonum prolis, alla luce del vero personalismo che parte dal Concilio Vaticano II, allo scopo di poter capire quale sia l'oggetto del consenso matrimoniale, inteso più come donazione delle persone nella loro coniugalità anziché come interscambio di diritti ed obblighi. È vero che dal matrimonio nascono precisi diritti e obblighi, ma si deve tener conto che la donazione coniugale, quindi la volontà per realizzarla, non va indirizzata primariamente a l'interscambio di questi diritti e doveri, ma alla costituzione della relazione giuridica matrimoniale che, per la sua stessa natura, è la loro fonte, essendo codesti diritti e doveri una conseguenza inscindibile del dono della propria coniugalità.