DOSSIER / Natale Copto

           

            Gerusalemme Etiopia

            di Andrea Semplici

http://www.freeworld.it/peacelink/nigrizia/95_12/p31.html

            "Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere...". Così si animavano l'un l'altro, nella notte, i pastori avvertiti dagli angeli della nascita del Bambino. Ma come ripetere, nel lontano e inaccessibile Corno d'Africa, quel pellegrinaggio adorante? La chiesa copto-etiopica, che tuffa le sue radici storiche nel grande Atanasio di Alessandria e quelle mitiche nel re Salomone, si è dotata dal XIII secolo di una nuova Terra Santa, all'ombra di una cima che sfiora i 4.200 metri. Non manca neppure il fiume Giordano. Qui, a Lalibelà, tra incredibili templi unici al mondo, costruiti con lunghissimo e paziente lavoro di scavo per essere meglio difesi dagli invasori, si svolgono le liturgie più sacre ed emozionanti. Il dossier racconta il mistero di Lalibelà, scoperto durante le celebrazioni dell'Epifania. Le immagini si riferiscono alla festa di Ghenna, il Natale.

           

Andiamo!...

            All'alba, la luce degli altopiani è scintillante. Il sole conquista la cresta della montagna dedicata all'Abuna Yosef, cima di 4.196 metri che sovrasta Lalibelà, e i suoi raggi scivolano come colpi di sciabola sull'acqua racchiusa in una vasca a forma di croce. E' l'ora, la notte è finita: in piedi sull'orlo della vasca, l'abuna, il vescovo copto, immerge una croce d'oro nell'acqua e vi spenge una candela consacrata. La tensione di una notte di preghiera quasi scompare di colpo, scoppia il caos più incontrollato; l'acqua, così santificata, viene scaraventata addosso ai fedeli, la gente vi si immerge freneticamente. Dopo la meditazione, dopo il silenzio e i canti ritmati, passate le ore lentissime della notte, l'alba è come una liberazione: il miracolo si è ripetuto, il rito del nuovo battesimo si è rinnovato. E' una festa, i fedeli, i turisti, i diaconi si lanciano addosso l'acqua, le donne reclinano la testa per ricevere bagni benedetti. La giornata più sacra del calendario etiopico è cominciata. E' il Timket, l'epifania copta, che cade il 19 gennaio. Si chiude così il ciclo delle grandi feste dell'altopiano: dodici giorni prima si festeggia Ghenna, il Natale. Timket non ricorda, come l'epifania cattolica, l'adorazione dei Magi davanti alla grotta di Betlemme, ma è la commemorazione del battesimo impartito a Gesù Cristo da Giovanni Battista nelle acque del Giordano. E quale città etiopica, quale villaggio, quali chiese sono più sacre per festeggiare questo evento se non Lalibelà? Qui gli uomini dell'altopiano hanno sfidato l'impossibile, ricostruito una Gerusalemme di pietra, rifondato, negli anni bui del medioevo etiopico, una città santa e l'hanno modellata come la città più sacra delle religioni del mondo. Gli architetti che hanno creato Lalibelà non hanno nemmeno dimenticato di incidere nel tufo il corso di un nuovo fiume che non poteva che essere il Giordano. Ma questo torrente è sempre in secca nei giorni di gennaio: per questo la vasca a forma di croce, proprio all'ingresso di Lalibelà, è diventata il luogo eletto del battesimo di massa. Alla vigilia dell'epifania, il giorno di Keterà, una lenta processione aveva trasportato gli invisibili Tabot dagli scrigni più sacri celati nelle chiese copte alle tende bianche alzate accanto alla vasca dell'acqua sacra. I Tabot rappresentano le Tavole della Legge, le pietre sulle quali sono scolpiti i comandamenti fondamentali del cristianesimo.

 

L'Arca perduta

            I Dieci Comandamenti, consegnati da Dio a Mosè sul monte Sinai, arrivarono in tempi remoti in Etiopia, assieme all'Arca dell'Alleanza, l'urna che li custodiva. E' un altro grandioso mistero del cristianesimo copto: l'Arca dell'Alleanza dovrebbe trovarsi ancora, protetta e inaccessibile, in una cappella di Axum, proprio là dove sorge la più antica chiesa cristiana dell'Africa al di sotto del Sahara. Per un'intera notte i Tabot sono stati venerati da una moltitudine di persone che non hanno chiuso occhio un solo minuto. La radura polverosa all'ingresso di Lalibelà è stata invasa da canti e nenie lentissime; colpi di tamburo e tintinnii di sistri, i sonagli dorati delle cerimonie copte, sono risuonati senza sosta per ore e ore. Il giorno di Timket, i Tabot, dopo il trionfo del battesimo, compiono il viaggio inverso: risalgono verso la collina di Lalibelà, nascosti dentro drappi di velluto, celati da sete ricamate, appoggiati sulla testa di preti eletti. Vengono riportati al sicuro nei maqdàs, i recinti più sacri e vietati a chiunque non sia sacerdote, all'interno delle chiese copte. La processione del ritorno verso le chiese è lenta, suntuosa, solenne, festosa, interrotta da canti ritmati in ghe'ez, l'antica lingua degli altopiani, da balli, da cerimonie improvvisate, da riti e scenografie straordinarie. I sacerdoti si proteggono dal sole sotto sgargianti ombrelli di velluto simboleggianti la bellezza delle volte celesti. File di preti si schierano sulle pendici delle montagne, sull'orlo di baratri di tufo, e oscillano i loro sistri in un ossessionante tintinnio, i giovani ballano in cerchio con i bastoni, i diaconi colpiscono con forza i tamburi. Ad ogni passo si adorano i Tabot. I turisti bianchi sono ovunque invadenti con le loro videocamere. Per percorrere i due chilometri che separano il piazzale del battesimo dalle chiese di Lalibelà occorre tutta la lunga mattinata di Timket. La processione conduce a questo piccolo villaggio dalle case in pietra a due piani. Ma chi potrebbe immaginare che fra queste povere capanne a 2.360 metri di quota, attorno a queste strade polverose e malmesse, possa apparire all'improvviso, da squarci nella roccia, uno dei luoghi più sacri e magici della Terra?

 

Preghiere di pietra

            Lalibelà nasconde il più straordinario complesso di chiese rupestri del mondo: antichi operai, architetti geniali, artisti fantastici e senza nome hanno inciso le montagne, scavato rocce vulcaniche, scolpito edifici grandiosi, intarsiato le colline, aperto una rete inestricabile di tunnel, un labirinto di gallerie, un groviglio di passaggi sotterranei. Lalibelà è molto di più di una delle meraviglie del mondo: è un miracolo, un luogo incredibile, un mistero. E dubbi ne ebbe anche Francisco Alvarez, sacerdote portoghese, il primo europeo che, nei primi anni del '500, visitò Lalibelà e osò raccontare ciò che aveva visto. Alvarez era venuto per avviare la conversione al cattolicesimo dei cristiani copti di Abissinia e ne rimase invece ammirato e dovette, nel timore di non essere creduto, fare una premessa al suo racconto: "Giuro su Dio che tutto quanto qui sta scritto è verità, e c'è molto di più di quanto io abbia scritto, e se mi son limitato a questo è perché non mi si accusi di mendacio". Come poteva essere creduto il povero Alvarez? Attorno al 1200, re leggendari avevano ordinato la ricostruzione di Gerusalemme nel cuore dell'Africa, avevano alzato "preghiere di pietra" al cielo, avevano deciso di cambiare la geografia di un'intera regione dell'altopiano traforando, con tecniche ingegneristiche ancora misteriose, le rosse montagne che difendevano il loro regno. La leggenda assicura che Lalibelà è nata da un sogno, da un ordine divino, da un bambino predestinato. Perché non crederle? L'Etiopia è come se replicasse alle sue tragedie, tessendo attorno alla storia una ragnatela di leggende splendide. Lalibelà è sicuramente l'opera di menti visionarie. Roha era il nome originale di Lalibelà, un villaggio importante: qui vivevano i signori della dinastia Zagwe, gli eredi, nella regione del Lasta, degli splendori di Axum dopo la distruzione dell'antica capitale degli altipiani. Era gente appartenente all'etnia cuscitica degli agaw.

 

Un bimbo predestinato

            Il più grande impero dell'antichità africana era scomparso da tempo: la misteriosa civiltà axumita, dominatrice degli altopiani dal I secolo avanti Cristo, era stata ormai cancellata in modo e in circostanze sconosciute agli storici. I re di Axum, convertiti al cristianesimo dopo il 300, non esistevano più e ancora non era stata scritta la leggenda della regina di Saba e di re Salomone, che avrebbe regalato ascendenze mitologiche e divine ai futuri signori amhara dell'altopiano. Gli agaw erano gli abitanti originari dell'acrocoro etiopico. Approfittando del vuoto di potere dopo il crollo di Axum e dell'anarchia che regnava sulle "terre alte" del Corno d'Africa. La storiografia ufficiale etiopica, sempre dominata da vestali dei regni salomonidi, bolla come usurpatori i re Zagwe, ma questa dinastia, attorno al 1100, fu la sola capace di ricostruire un piccolo regno etiopico, un embrione di stato in una delle zone più impervie dell'altopiano, al riparo di montagne invalicabili e canyon insuperabili. E gli Zagwe hanno regalato al mondo le meraviglie della loro architettura rupestre. Un bambino di una casata nobiliare nacque a Roha nella seconda metà del 1100. Pochi giorni dopo la sua nascita fu avvolto e circondato da uno sciame di api. La madre non urlò di paura, ma gridò di gioia: era il segno del futuro di suo figlio. Gli animali predicevano un destino reale per il bambino che fu subito battezzato Lalibelà, che in lingua agaw significa "le api riconoscono la sua sovranità". Ma non fu una fortuna per il bambino: il trono Zagwe era conteso da rivali senza scrupoli e i tentativi di uccidere Lalibelà si moltiplicarono. Un attentato riuscì e il giovane principe vide morire un giovane diacono e il suo cane per colpa del cibo a lui destinato. Decise di morire anche lui e mangiò le vivande avvelenate. Dio però aveva ben altri progetti e salvò Lalibelà dalla morte. Ma il giovane non si svegliò per tre giorni e, nel sonno, ricevette un ordine celeste: avrebbe dovuto costruire chiese che il mondo non aveva mai visto, né progettato.

 

Maestranze angeliche

            Lalibelà doveva fondare una "nuova Gerusalemme" scolpita nelle rocce vulcaniche dalle forti tonalità rossastre che circondano Roha che, da allora, prese il nome del suo nuovo sovrano. Dio non abbandonò Lalibelà in questa impresa sovrumana, accompagnò il futuro re nella vera Gerusalemme perché ne traesse ispirazione e inviò schiere di angeli nel cuore dell'Etiopia: furono questi gli operai notturni del cantiere divino, solo così fu possibile edificare questo immenso miracolo di pietra in soli 24 anni. Lo stesso Lalibelà rientrò da Gerusalemme sulle ali dell'arcangelo Gabriele. Regnò per decenni e morì a settant'anni. In quegli anni Gerusalemme era in mano ai musulmani di Saladino. Frammenti di cronache raccontano che 500 operai arrivarono da Alessandria d'Egitto. Una leggenda meravigliosa e utile. Risparmia agli storici di indagare sulle tecniche misteriose che hanno consentito di costruire le chiese di Lalibelà. Basiliche rupestri scavate direttamente nella roccia, modellate "a rovescio": gli operai hanno inciso la montagna, scolpito la pietra, graffiato il tufo per disegnarvi pareti, finestre, colonne, gallerie, palazzi. Sono la testimonianza della forza straordinaria di un cristianesimo arcaico, di una religione cristiana rimasta isolata per centinaia di anni, con i suoi riti e i suoi sincretismi, con la sua tradizione cocciutamente conservatrice e le sue leggi feudali, sugli inaccessibili altopiani etiopici, circondati da popolazioni islamiche e da aggressivi eserciti musulmani.

 

Labirinto sacro

            Le chiese rupestri di Lalibelà sono undici santuari raggruppati in due grandi complessi monumentali separati dal corso del fiume Giordano. Una sola chiesa, Betè Ghiorghìs, San Giorgio, forse la più bella, è isolata ai margini del villaggio. Innumerevoli altre chiese rupestri sorgono nelle montagne intorno a Lalibelà e possono essere raggiunte solo con ore e ore di marcia. Sono l'ulteriore testimonianza di un'immensa civiltà rupestre. Un dedalo di gallerie sotterranee, di passaggi segreti, di tunnel in parte oggi crollati, collega ogni chiesa di Lalibelà all'altra. Cunicoli, cripte, grotte artificiali, caverne sacre, cappelle scavate una dentro l'altra s'inseguono a Lalibelà. Quattro chiese sorgono direttamente dalla roccia, sono saldate alla montagna dal pavimento e sono state tagliate nel macigno: si tratta di chiese monolitiche, massi immensi scolpiti e svuotati. Una chiesa, Betè Abba Libanòs, è collegata alla roccia solo dal soffitto. Tutte le altre sono strutture ipogee, fuse, con una o più pareti, alle rupi che le circondano. Ma solo varcare i confini delle chiese può far capire cosa sia Lalibelà. Nessuna descrizione può davvero competere con le emozioni profonde che regala questo misticismo di pietra. Un alto ginepro sorge alle spalle di Medhanié Alèm, la chiesa del Salvatore del mondo, la basilica più grande. La collina di tufo scivola sotto il ginepro e qui, in quei lontani anni intorno al 1200, gli operai dell'Etiopia medievale hanno scavato la trincea-voragine che nasconde questo Partenone africano. Medhanié Alèm è un monolito lungo 33 metri, largo 23 ed alto più di 11. Non è una semplice chiesa, è un tempio circondato da un possente colonnato di 34 pilastri, è una cattedrale. All'interno 28 colonne levigate sorreggono il tetto. I numeri vanno dati perché si capisca fino in fondo l'impressionante capolavoro di Lalibelà e il suo mistero. I simboli diventano fondamentali per afferrare il sincretismo della religione copta. Dentro Medhanié Alèm vi sono tre sarcofaghi vuoti, le tombe immaginarie di Abramo, Isacco e Giacobbe. Come a Hebron. I pellegrini della Gerusalemme africana devono venerare gli stessi luoghi della lontanissima capitale della cristianità. L'interno della chiesa è spoglio, ma ogni pietra è lucida e risplendente, levigata dal passaggio di milioni di persone. Finestre cesellate fanno penetrare barlumi di luce: sono feritoie e a forma di croce greca o di svastica, la croce indiana. All'esterno, monaci eremiti scivolano in grotte minuscole dove si immergono in ossessionanti salmodie.

 

Mosaico di enigmi

            Bisognerebbe volare per confrontare, subito, Medhanié Alèm con l'orgogliosa solitudine di un'altra cattedrale, Betè Ghiorghìs. Sorge ai margini del villaggio ed è a pianta cruciforme: la basilica dedicata a san Giorgio non si scorge fino a quando non si sta per precipitare nella sua trincea. Il soffitto affiora appena dalla superficie della collina e solo un tunnel scavato in profondità consente l'accesso a questa cattedrale monolitica, vero miracolo architettonico: lo spessore delle pareti diminuisce con l'altezza, ma possenti strisce di pietra, orizzontali, impediscono, con un effetto ottico, di rendersene conto. Anche la genesi della solitudine di san Giorgio è avvolta nella leggenda. Fu la rabbia di san Giorgio a convincere re Lalibelà a costruire questa basilica. Nessuna chiesa era stata dedicata fino ad allora a uno dei santi più importanti della religione copta e re Lalibelà rimediò, promettendo che avrebbe costruito per lui la chiesa più bella. E san Giorgio sorvegliò personalmente i lavori della sua basilica. La prova? L'impronta dello zoccolo del suo cavallo è rimasta impressa nel tunnel che conduce alla chiesa. Vi si può credere? Sì, come si può immaginare re Lalibelà che osserva dalla finestra di una altana di roccia i riti che si svolgono nel cortile di Betè Maryàm, la basilica dedicata a Maria, la chiesa più venerata, l'unica affrescata con intense pitture sacre. Nel cortile di Betè Maryàm si trova anche la piccola cappella di Betè Denghèl, la Casa delle Vergini: è solo una grotta priva di grande bellezza, ma è la prova dei contatti fra la cristianità africana e la chiesa cristiana di Roma. E' dedicata alle vergini del monastero femminile di Edessa, che furono massacrate, nel IV secolo, per ordine dell'imperatore Giuliano. Come è stato possibile che la storia di questa lontana vicenda rimbalzasse dal Mediterraneo fino a Lalibelà, villaggio sperduto tra montagne sconosciute, oltre i deserti controllati dall'islam? Troppi misteri a Lalibelà: nel gioco di incastri rupestri la chiesa di Betè Mikaèl è solo l'accesso alla cappella di Betè Golghota che, a sua volta, nasconde, invisibile a tutti tranne che a scontrosi preti-guardiani, la Selassié Chapel, la Grotta dedicata alla Santissima Trinità. Qui si troverebbe la tomba di Lalibelà e il sarcofago simbolico di Cristo. Un cerchio divino si chiude così in questo villaggio del Lasta. Tutto si annebbia, leggenda e storia non hanno volutamente più confini. Qui l'Etiopia più sacra mette in mostra tutti gli intrecci inesplicabili ai nostri occhi di occidentali, la sua civiltà è enigmatica, è un nodo inestricabile di grandi fedi, di potere religioso, di dinastie feudali, di riti avvolgenti, di leggende costruite per giustificare il comando e il dominio, di storia, comunque sia, grandiosa e tragica. Lalibelà ne è il segno più alto, il simbolo più elevato: è il centro del mondo copto, dell'universo etiopico. Andrea Semplici

 

 La chiesa copta d'Etiopia

            La parola "copto" deriva da un'arabizzazione della parola greca ay-gypt-ios (egiziano) e significa, innanzi tutto, ogni egiziano non arabo né arabizzato. Più tardi vi si aggiunse il significato religioso, per indicare i cristiani monofisiti dipendenti dal Patriarcato d'Alessandria, staccatisi dalla chiesa per aver rifiutato le decisioni del Concilio Ecumenico di Calcedonia (451). Assieme a quelli che, nel 1054, si separarono da Roma, anch'essi si autodefinirono "ortodossi". Nella liturgia usano ancora la lingua copta, derivazione dell'egiziano antico, di ceppo camitico, con un alfabeto derivante da quello greco.

 

Non ribelle, ma isolata

            Il cristianesimo entrò in Etiopia con san Frumenzio (morto attorno al 375), giovane siriano che dopo aver convertito l'imperatore e i notabili fu consacrato vescovo verso il 350 ad Alessandria d'Egitto dal grande Atanasio: tutti erano allora in comunione con Roma. Da allora la chiesa madre per gli etiopici fu considerata Alessandria. Malgrado la continua crescita del numero dei cristiani, il Patriarca di Alessandria consacrava sempre un solo vescovo, egiziano, chiamato abuna, che veniva mandato in Etiopia dopo la morte del predecessore. Per secoli l'Etiopia visse in un isolamento quasi totale. Solo nel 1441 papa Eugenio IV convocò al Concilio Ecumenico di Firenze anche la chiesa "copto-ortodossa" d'Etiopia. La delegazione di monaci e preti (il vescovo non era presente) mostrò fede, stima e affetto per il Romano Pontefice e collaborò per la riunificazione, poi finita in un nulla di fatto. Ma fu estremamente chiara: "La separazione della nostra chiesa non si può spiegare con motivi di ribellione o di leggerezza, come accadde in altre chiese, ma per motivi di lontananza e difficoltà di viaggi per giungere fino a Te, Beatissimo Padre, che sei molto di più di Salomone, e anche per negligenza dei tuoi predecessori nell'invio dei loro delegati a visitare il gregge della nostra terra".

 

Monofisismo e dintorni

            Gli storici confermano l'esattezza di queste asserzioni. Anzi non sanno datare esattamente neanche la separazione della chiesa d'Etiopia da quella di Roma, cioè quando divenne monofisita: per cento o più anni dopo Calcedonia si considerò in piena comunione con la Sede di Pietro. Ma la chiesa d'Etiopia è veramente monofisita? Monofisiti sono coloro che sostengono che in Cristo, Figlio di Dio incarnato, è presente una sola natura, risultante dall'unione della Divinità con l'Umanità: Cristo sarebbe cioè veramente Dio, ma non veramente uomo. Studi recenti dimostrano che da sempre gli etiopici, oltre ad essere restii a disquisizioni troppo astratte, credono di fatto ciò che a parole negano. Gesù è "Figlio del Padre" (natura divina), ma anche "Figlio di Maria" (natura umana), "simultaneamente" (nell'unione ipostatica). _ la formula presente nel loro Credo. In che cosa si distinguono, allora, dalla chiesa cattolica? In sintesi questi sono i punti principali: ¨ Non riconoscono il primato del papa di Roma. ¨ Mantengono pratiche peculiari alle quali viene data un'importanza quasi teologica, mentre è solo di ordine culturale e disciplinare, per esempio: rigida serie di digiuni; assunzione del calendario civile giuliano e del calendario liturgico copto; battesimo al 40° giorno per i bambini e all'80° per le bambine; ordinazione sacerdotale solo a giovani già sposati (e, se rimangono vedovi, non possono risposarsi). ¨ Ovviamente non accettano i dogmi e gli insegnamenti di tradizione approfonditi nella chiesa cattolica dall'VIII secolo in poi.

 

Inculturata da sempre

            La chiesa etiopica è l'unica chiesa africana rimasta fedele a Cristo dagli albori fino ad oggi. Perché? A differenza di altre, qui il cristianesimo venne subito "inculturato" e sentito come parte essenziale dell'Etiopia. Il monachesimo, anch'esso importato dall'Egitto, si diffuse rapidamente ed assunse un ruolo di custode della fede e dell'unità anche politica contro i continui assalti dell'islam. Il capo di tutti i monaci (ecceghié) era per diritto il padre spirituale dell'imperatore, con poteri disciplinari talvolta al di sopra, e spesso al di fuori, di quelli dell'Abuna. L'ambiente geografico, inoltre, con altopiani inaccessibili e valli scoscese, fu determinante per respingere ogni tentativo d'invasione di qualunque esercito. E fin dall'inizio i testi liturgici e scritturistici furono tradotti nella lingua ghe'ez, usata dalla gente. La liturgia divenne parte della vita ed elemento di unificazione e di identificazione. Nel nostro secolo, per iniziativa di Hailé Selassié, la chiesa copta acquista una progressiva autonomia da quella di Alessandria: nel 1929 vengono consacrati non uno, ma cinque vescovi, tutti etiopici. Nel 1959 l'arcivescovo Basilios riceve la facoltà di consacrare altri vescovi etiopici ed è proclamato Patriarca, raggiungendo la completa indipendenza da Alessandria. Nel 1993 l'Eritrea ottiene l'indipendenza dalla chiesa copta d'Etiopia, contestualmente all'indipendenza nazionale, con la consacrazione del suo primo vescovo - non ad Addis Abeba ma ad Alessandria (considerata quindi, ancora una volta, la chiesa madre per tutti).

 

Quale ecumenismo

            Il missionario lazzarista san Giustino de Jacobis (1800-60), consacrato vescovo dal cardinal Massaia in circostanze drammatiche, con metodi di inculturazione che anticiparono di un secolo il Vaticano II aveva attirato alla chiesa cattolica molti preti e fedeli copti. In tutto uniti alla chiesa di Roma, ma di rito liturgico (e quindi di tradizione e cultura) etiopico-alessandrino, il gruppo è considerato quasi uno scandalo per i copti ortodossi, ma è un possibile intermediario nel dialogo per i cattolici di rito latino. In realtà a livello delle autorità il dialogo religioso si può dire inesistente. Sul piano dei contatti personali tra i preti e tra i fedeli, invece, spesso si dimostra molta buona volontà. Come per le chiese d'Oriente, anche per la chiesa copta in Etiopia le divergenze da Roma appartengono più alla formulazione della fede che non alla fede stessa. La separazione è più una distanza psicologica accumulata in secoli di incomprensioni e pregiudizi, che non una profonda divaricazione di natura dottrinale. Il dialogo della carità è per certi aspetti più importante di quello della verità.

Claudio Altieri